lunedì 26 luglio 2010

Pain parade

Dico la verità, senza falsi pudori: queste cose mi sconcertano. E non parlo della morte che è inscritta nel nostro certificato anagrafico o del dolore che, per quanto si possa fare, per fortuna è e resterà sempre invisibile e privato. Non parlo nemmeno delle responsabilità da accertare e punire perché lì arrivano (o dovrebbero arrivare) legge e giustizia.


Quello che mi sconcerta sinceramente sono le foto come questa qui accanto o come quella sulla prima pagina cartacea della Repubblica di oggi, 26 luglio. Quello che mi sconcerta è il fatto che, in pochissimo tempo, i luoghi di questi avvenimenti si trasformino in altari mediatici.
Candele, fiori e cartelli. Tutto in esposizione.
E' come se tutti noi, ormai incapaci di leggere gli eventi sociali che ci accadono e che sfuggono al nostro stesso agire, spossessati della capacità di comprendere i nostri sentimenti, conservassimo in casa già belli e pronti cartelli di dolore (sulla foto di Repubblica campeggia un cartello con su scritto "warum?", perché?). E' come se tenessimo nei cassetti le nostre urla di disperazione, pronti a tirarle fuori alla bisogna, come un abito, come un gesto, come un comportamento.
I nostri "perché", invece di essere interrogativi quotidiani, motore del nostro stare nel mondo, sembrano diventati nenie senza senso. Invece di chiederci in continuazione cosa (ci) accade, aspettiamo una morte, un disastro per trasformarli nel grande spettacolo permanente.
Così come Heysel (lo stadio di Juve-Liverpool), o come tanti altri episodi del genere, sembra di assistere ad una rievocazione storica, al ripetersi coreografico del massacro. Coi sopravvissuti che, protagonisti o vittime del meccanismo non sappiamo, tengono persino conferenze-stampa...
Così basta guardare, in alcune foto, il volto di Irina sull'orlo del pianto per capire forse meglio cosa cerchiamo e chi siamo noi altri in questi spettacoli.
Cosa significhino decine di candele e di mazzi di fiori distesi su un marciapiede: da un lato suppliscono la nostra incapacità di sentire e, prima ancora, di comprendere; dall'altro ci ripropongono ogni volta come una droga il silenzio che ci esplode dentro.
Che ci sbrana.

sabato 24 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (6)

Stamattina abbiamo fatto una cosa ignobile, quasi turpe. Una di quelle che il turista intruppato non dovrebbe nemmeno permettersi di immaginare.
Stamattina ci siamo alzati alle 5.00 e siamo andati a vedere l'alba sul mare. Poche nuvole basse sulla linea dell'orizzonte non ci hanno impedito di godere lo spettacolo della natura che si risveglia: la bassissima marea (due dita d'acqua su un isolotto di sabbia), la sabbia fresca e pettinata dalla brezza notturna, i gabbiani signori assoluti del bagnasciuga e del cielo. Tutto ciò senza pagare alcun biglietto, senza tavole sinottiche, senza gabbie o teche dentro le quali sbirciare.
Il sole che sorge.
I pargoli erano fuori di sé dall'eccitazione e raggianti di poter correre, sguazzare o saltellare in tutta libertà. Questo sentimento a loro piace tanto, ma piacerebbe da morire anche a noi adulti poterlo vivere identico ogni tanto.
Così, approfittando di una spiaggia quasi deserta, ci siamo avviati per una lunga passeggiata sulla riva. Vista da lì, la città balneare offre di sé una prospettiva inedita e decisamente interessante. Erano davvero tanti anni che non la guardavo da lì.
La pletora di alberghi, uno dietro l'altro come un esercito impettito, dispiega tutta la forza, simbolica e non, dell'industria lumpen-turistica locale. Gli imprenditori della prima fila sul mare, quelli che in anni senza vincoli hanno saputo immaginare un futuro di economia e sviluppo in un territorio fatto solo di sabbia e zanzare. Veri e propri pionieri, persino vagamente visionari: sono stati i primi ad arrivare e, come in un famoso brano del Mistero Buffo di Dario Fo (ciò a cui mi riferisco è l'ultimo minuto circa di questo video), hanno transennano, chiuso, segnato confini, "questo è mio, la sabbia è mia, il mare è mio". Ho il contratto firmato da Dio.
Lì sopra hanno costruito le loro fortune personali confondendole con quelle di un'intera comunità che all'epoca era ancora davvero un villaggio di pescatori e poco altro.
Il primo albergo costruito in zona "marina" è ancora lì, ben visibile dalla riva, e tutto sommato sempre consono nel suo stile sobrio, con quelle linee regolari. Il resto è un'infilata di fabbricati geometrili. Mattoni e alluminio, cemento e verde: più che un esercito, un'armata brancaleone della ricchezza rincorsa (e raggiunta, in alcuni casi). Se si volesse rendere visibile la parola deregulation basterebbe imbracciare una videocamera e fare una carrellata sui casermoni tutti uguali eppur completamente diversi uno dall'altro, in un'accozzaglia di stili (si fa per dire...) che rendono unico l'obbrobrio visuale della città balneare cresciuta senza senso e senza criterio che non fosse quello di una imprenditoria selvatica. L'unica linea seguita è stata quella dritta e sabbiosa della costa.
Così, lo splendido lungomare pieno di palme citato in qualsiasi guida o depliant o articolo di giornale, in Italia e all'estero, fa da contraltare alla tristezza dell'edilizia del boom. E anche di quella contemporanea che ha saputo realizzare quanto di più brutto: in lontananza si staglia un terribile fabbricato (non sono riuscito a capire cosa fosse) che ha lo stile di un laido espositore di patatine da autogrill. Solo, in formato palazzone: nel caso si trovasse a passare di qui King Kong.
Per altri versi, quello sviluppo ha avuto un suo senso di democraticità: tutti hanno avuto un pezzetto di reddito, basta guardare la spiaggia. Democristianamente, l'arenile è stato diviso in centinaia di spicchi e fettine, per accontentare quante più famiglie possibili e dare loro un accesso alla nuova industria che nasceva. Adesso, basta guardare il colore degli ombrelloni (a ogni colore, un diverso gestore) per capire che in un solo chalet, gestito da Tizio, è possibile che la spiaggia sia invece gestita da Caio o Sempronio, in un delirio di divisioni e confini. Fino a qui, è roba mia e pagate a me; di là c'è un altro a cui chiedere.
La città balneare, si sarà capito?, è quella dove sono nato e che adesso rivedo una o due volte l'anno. Certi cambiamenti quindi me li trovo davanti un po' all'improvviso e mi colpiscono. Non come chi ci abita e la vive giorno dopo giorno e a quei cambiamenti si assuefa lentamente e magari li digerisce pure. E li capisce, se anche non dovesse amarli.
A noi, ormai un po' turisti un po' cittadini per affetto, restano comunque cartoline personali. Un'alba sul mare, per esempio. O una nuotata nell'acqua limpida. Basta non guardare troppo. E non farsi tante domande...
(fine)

Ah, dimenticavo: l'albergo pionieristico fu chiamato, profeticamente (e si chiama ancora), Hotel Progresso.

L'alba sul mare

venerdì 23 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (5)

La città balneare in formato-famiglia (sì lo so che detto così sembra un pacco di biscotti ma si tratta esattamente di questo) offre occasioni deliranti che nessun paese, che so, della Corsica potrà mai darvi. Bancarelle e mercatini in ogni dove, gonfiabili e giostre, gelaterie come funghi, qualsiasi chalet contiene macchinette mangiasoldi di ogni genere. Persino i giardini pubblici dove desian giocava liberamente da bambino sono stati trasformati in un luogo di consumo: si entra (e si gioca) solo pagando. E' il progresso, bellezza!
E i dintorni, vedeste i dintorni! Dove solo pochi anni fa c'era campagna buona per passeggiare o, più semplicemente, per fare agricoltura, adesso ci sono centri commerciali decisamente inquietanti grazie ai quali la mole di traffico è diventata quella di una grande città: ingorghi spesso e volentieri, lunghi serpentoni di metallo che (non) si muovono tutti nelle stesse direttrici. Il commercio.
E non contenti, gli amministratori locali, sono pronti ad autorizzare nuovi insediamenti iper-commerciali. Viva il progresso...
Insomma, dopo il mare e il sole, la sabbia e l'ombrellone (vecchie merci vendute ormai da decenni sempre uguali e che evidentemente non bastano più: perché accontentarsi di una nuotata o un bagno di sole, dimenticando il consumo almeno in vacanza?), l'unico sviluppo possibile di luoghi come questo sembrano essere le merci. Il famigerato marketing del territorio, che finirà di distruggerlo il nostro territorio, qui non si coniuga con rispetto per l'ambiente o con servizi ai turisti o con sviluppo ecocompatibile (vogliamo fare un paragone col Trentino - Alto Adige?!) ma con il commercio a breve termine. Perché il turista è spesso l'unica risorsa e va spremuta bene, fino in fondo.
Insomma, luci del varietà accese per le poche settimane di alta stagione, sagre gastronomiche che spesso ammanniscono pessimo cibo fritto in residui della lavorazione petrolifera, frizzi e lazzi ad uso e consumo di una festa che appare sempre più fasulla. Gran confusione sotto il cielo ma in fondo la città balneare non sa essere altro che il riflesso dell'intero Paese: un baraccone che, va detto, piace a molti e li rende soddisfatti. Cosa chiedere di più?... E se invece imparassimo a chiedere di meno?
(continua...)

giovedì 22 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (4)

Come chiunque abbia lavorato nel lumpen-tourismus (ossia quello dell'ipersfruttamento a conduzione familiare) sa perfettamente, ad ogni boss-dotato-di-sigaro corrisponde invariabilmente una figura mitologica, la vera padrona, quella che manda avanti sul serio la baracca.
Di solito è il boss che grida, vocia e si sbraccia a destra e a manca, ma chi decide e comanda è “sua moglie”.
Nel momento di massimo pathos lavorativo, statene certi, sentirete alzarsi imperiosa la voce del boss che ce l'ha con qualcuno, che impreca contro il mondo creato, che sbuffa fumo dalle narici come fosse un vaporetto.
“Sua moglie” lo guarda in silenzio poi si gira verso di voi, turista-avventore, e vi fa l'occhiolino e un mezzo sorriso. Non sta dicendo “va tutto bene, fidatevi di me”, no.
Sta dicendo “appena si cheta, e voi vi siete spostati dalla visuale, gli cavo l'occhio; questo”. Vi ha semplicemente mostrato in anteprima quale dei due bulbi sacrificherà.
Nel dialetto ancestrale della città balneare, anzi del suo entroterra, esiste un termine un po' forte che però specifica bene di cosa stiamo parlando: la vergara. Mutuata dal vocabolo maschile e traslata di decennio in decennio al femminile, questa parola indica proprio l'antica funzione della società matriarcale: la donna che comanda, il capo indiscusso della comunità contadina.
Ecco, la moglie del capo, nel lumpen-tourismus, è colei che ha in mano tutte, e dico tutte, le leve del potere: in primis, è colei che gestisce il denaro e i rapporti con le banche. A cascata, si capisce, gestisce il resto: i dipendenti, lo spazio, il tempo, le mansioni. Unica eccezione sono i lavori di fatica che sono, munificamente va detto, elargiti agli uomini. Ma anche qui, eccezione dell'eccezione, si son viste vergare ben piantate entrare in una cella frigorifera ed uscirne con un quarto di bue a tracolla come fosse una borsetta di Gucci.
Così, l'altra sera, prima di rientrare a cena, la profe e desian si sono fatti venire la splendida idea di concedersi un semplice aperitivo, un analcolico e qualche nocciolina, niente di più. Lo spazio più adatto a questo scopo, un angolo appartato e fuori mano dello chalet, era stato agghindato per una cena di compleanno e non era quindi disponibile. Non volendo rinunciare, abbiamo ripiegato sul salottino/ingresso dello chalet medesimo. Con un attimo di ritardo, quando ormai ci eravamo seduti, ci siamo accorti che quello spazio doveva essere velocemente pulito e rassettato per accogliere quelli che, di lì a poco, sarebbero arrivati per cenare (ogni chalet che si rispetti è quasi sempre anche ristorante-sul-mare).
La moglie del boss non si è invece distratta: con una certa classe (sic!), malcelata dietro una pettinatura ormai arrivata allo stremo (dopo “una giornata al mare”, come si è schernita lei stessa), ci ha dolcemente redarguito. “Mi raccomando, fate presto: dobbiamo pulire e abbiamo pochissimi minuti prima che arrivino per cena”.
Ora, vabbé che l'aperitivo non è un'impresa titanica ma almeno due sorsi lasciateceli fare.
Dall'altro lato del campo di battaglia, il boss si è reso conto dell'incidente di percorso ed ha, come il ruolo impone, cominciato ad inveire contro “sua moglie”. La quale non ha fatto una piega: lo ha guardato bonaria poi si è girata verso di noi, ancora più dolce di poco prima, e ha spiegato: “eh già, mica lo pulisce lui il pavimento”.
Non abbiamo fatto in tempo ad alzarci per riprendere la via di casa che il vecchietto male in arnese (quello che perennemente lotta con la sabbia sul pavimento di cemento) ha tirato fuori il mocio dal suo secchio-strizzatore ed ha avuto la giusta soddisfazione: continuare a dare il cencio. Ancora e ancora.
Per l'eternità.
La moglie del boss, da lontano, gongolava soddisfatta.
(continua...)

mercoledì 21 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (3)

Allora, ricorderete: il nostro Big Jim, dopo aver consultato il suo oracolo-mappa, si offre di accompagnarci all'ombrellone. Fatti tre passi, ce lo indica: "è quello laggiù".
Immagino che tutti abbiate presente una selva di ombrelloni distesi su una spiaggia. Fitti come un bosco di larici fitti. "Quello laggiù" può essere uno qualunque.
Pazienti ci avviamo finalmente sulla rena, scartiamo un paio di signore incartapecorite dalla tintarella e, finalmente, l'uomo piccolo riesce ad adocchiare il "civico" 177: siamo arrivati, il viaggio finisce qui. Ci installiamo. Questa sarà la nostra casa, nei prosimi giorni.
Forse.
Dico forse perché il giorno dopo (intanto io ero ripartito) la profe mi chiama al telefono: "sai, il nostro caro 177? Beh, stamattina ci ho trovato installata una signora"!
"Una signora chi"?!
"Eh sì, c'era una che sosteneva che il 177 era ed è sempre stato suo".
Insomma Big Jim, pur dopo aver letto l'oracolo-mappa, si era miseramente sbagliato. Non so se avesse sbagliato riga, colonna o direttamente linguaggio, fatto sta che il 177 risultava già occupato.
Panico, pensava la profe, e ora che succede?
Impietosito da donna-sola-con-due-pargoli, il nostro tenero Big Jim pare si sia perso in un bicchier d'acqua (al mare...) e abbia chiamato in soccorso niente meno che il boss. Un paio di urlacci, un breve consulto e la situazione si risolve con un trasloco nella stessa via, a pochi metri di distanza, "civico" 172.
Stavolta pare quello giusto.
"C'è solo un problema" mi rassicura via etere la profe "da qui dietro, in questa selva di ombrelloni, sdraio e lettini, il bagnasciuga è un orizzonte lontano! Mi vedo già in versione truppe cammellate fare avanti e indietro". Non c'è che dire: il vantaggio di non essere raccomandati...
Le prime file spettano, per diritto matrilineare, ai vip locali non certo ai turisti sprovveduti. E sia.
Il nostro spicchio di spiaggia è ormai conquistato.
Spicchio, parola quanto mai evocativa: la distanza tra un ombrellone e l'altro è misurabile in carta millimetrata. Non dico provare a girare il lettino, o stendere un telo, ma soltanto muovere un braccio significa infilarlo nell'occhio del vicino. A non più di quaranta centimetri da te. E voglio essere magnanimo.
In definitiva, il comfort massimo si rivela essere l'immobilità assoluta. Salire o scendere dal lettino richiede una certa perizia, un continuo ammiccare "mi scusi, permesso". In alternativa un "ops, non volevo" quando col piede riempi di sabbia il vicino.
Un paradiso.
Le palme stormiscono alla brezza, il sole fa il suo mestiere (scotta) e il turista-fantozzi sta pigiato come in una coda autostradale: muoversi a singhiozzo e occhio a non tamponare.
Sia chiaro, gentilissimo turista che arrivi: noi di spiaggia abbiamo tot metri quadri, voi siete molti di più (c'è crisi ma aumentate in continuazione, di anno in anno) e noi dove vi mettiamo? Pochi ombrelloni ben distanziati sarebbero "troppo" pochi. Quindi non rompere: goditi il sole, il mare (piuttosto pulito, va detto) e la pace marina.
Tutto ciò non sta scritto su un cartello affisso all'ingresso ma nell'espressione serafica del boss (e di sua moglie): la pace e il relax, dice lui.
Peccato che a partire dalle 10.00, un delirante servizio di pubblicità a mezzo altoparlante spezzi l'incanto e ti rompa i.
Timpani, avevo detto timpani.
Se non è civiltà questa!
(continua...)

martedì 20 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (2)

Domenica mattina, mentre ti avvicini all'ingresso dello stabilimento balneare (a proposito, nella città balneare gli stabilimenti vengono comunemente chiamati chalet. Per brevità, d'ora in poi, li chiameremo così), ti rendi conto che il tuo fine settimana al mare deve ancora cominciare ma, nello stesso tempo, sta già per finire.
Domenica sera ripartirai perché se è vero che profe e pargoli resteranno a godersi la loro meritata vacanza nel dolce verde marino, è altrettanto vero che tu sei ancora nel pieno del marasma lavorativo. E lunedì mattina ti aspettano, si fa per dire, in ufficio.
Che poi camminando sul marciapiede che ti porta allo chalet ti rendi conto (ma di questo avrai consapevolezza soltanto molto tempo dopo, quando sarai già rientrato in città e starai scrivendo questo post) che si tratta del medesimo marciapiede dove più di trent'anni fa accadeva questo e capisci, come dice la tua amica letterata, che le trame esistono, non sono soltanto l'invenzione di un qualche sceneggiatore ma che accadono nella realtà. Esse sono.
Insomma, arrivi ed entri. Lo chalet, a dispetto del nome in minore, è una specie di reggia e l'entropia regna sovrana. Quando individui una specie di reception ("sì, dev'essere lui il boss, fuma il sigaro!") ti avvicini e ti presenti. Abbiamo prenotato, per due settimane, sì ombrellone e due lettini, ecc.
Il boss ti guarda, interrogativo (e continuerà a tenere lo stesso sguardo ogni volta che gli ti parerai davanti le volte successive quindi: o non capisce cosa io voglia da lui, o sono trasparente e quindi è spaventato dalla mia voce che viene dal nulla, o cerca qualcosa nella sua memoria e non lo trova), poi riprende coscienza e grida un nome.
Attenzione adesso, focalizzate la situazione!
Gente vociante che si muove in ogni direzione, bambini e suppellettili che si intersecano, baristi che girano come trottole, familiari del boss. Malgrado siamo ancora sul cemento, la sabbia scricchiola sotto le tue infradito. Si sente strusciare: un vecchietto piuttosto male in arnese sta dando il cencio in terra cercando di aver ragione di tutta quella sabbia. Ogni altra volta che lo vedrò, d'ora in avanti, starà sempre facendo la stessa frenetica azione: un vero specializzato.
In questa nuvola di caos, pian piano dei contorni si fanno nitidi; si staglia una figura che avanza, fendendo tutto: sabbia, bambini, poltroncine.
Ti trovi di fronte un Big Jim in versione carne ed ossa. Lo stesso colore bronzeo della cute ma molto molto molto più muscoloso: egli è l'equivalente dell'arca di Noè per steroidi, anabolizzanti, ormone della crescita. Li contiene tutti, di ogni tipologia presente sulla Terra, come se dovesse salvare quelli dal diluvio invece degli animali.
A ben guardare, c'è qualcosa che stona. Anzi due.
La prima è una testolina piccola piccola in cima al suo collo diametro 64. La seconda è che... sembra non avere indosso nemmeno il costume da bagno. Orrore...
Se poi guardi bene, fiuuuu!, ti accorgi che ce l'ha però è rimasto nascosto nelle pieghe dei muscoli, tra la tartaruga addominale e i quadricipiti femorali.
Big Jim ti guarda, interrogativo (ma cos'è, un'abitudine della casa?!), poi riprende coscienza e guarda il boss che, a sua volta, prova a chiarirgli chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo.
Big Jim ha un guizzo, l'unico, negli occhi. Forse ha capito qualcosa. Estrae da sotto l'ascella (nuda) una specie di libro mastro il cui formato, giuro!, è di un metro per sessanta centimetri e lo apre con voluttà. Lo consulta come se si trovasse di fronte il libro delle profezie di Ezechiele.
In realtà, il voluminoso volume altro non è che una piantina della spiaggia con gli ombrelloni, disposti regolarissimamente in file di otto. Individuato il nostro posto (siamo al 177) quasi sorride e ci rassicura: "vi accompagno". Fa tre passi verso la spiaggia (ho detto tre) e solleva un braccio: "è quello là".
In quel momento incrocio il suo sguardo. Come ve lo immaginate voi lo sguardo di un siffatto Big Jim? Truce? Di superiorità? Sprezzante? Aggressivo? No, niente di tutto questo. Lo sguardo del nostro Big Jim ti dice una cosa e una soltanto: "voglimi bene almeno tu, oh turista sconosciuto" (e anche gli errori di grammatica sono inscritti entro i confini delle sue pupille), poi abbassa lo sguardo, si gira sui talloni e se ne va.
Allora mi chiedo: "Chi? Chi ha potuto non voler bene al nostro caro Big Jim tenerone, in vita sua? Chi è potuto essere tanto crudele"?
Chi lo ha ridotto così?
(continua...)

sabato 17 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (1)

Le premesse sono due, la prima brevissima: ebbene sì, sto leggendo "Una cosa divertente che non farò mai più" di David Foster Wallace e lo trovo geniale.
La seconda è un po' più articolata ma necessaria.
Le nostre vacanze al mare sono, di default, su spiagge libere, quelle senza stabilimenti balneari, senza assistenza per le famigliuole vogliose di relax (a che prezzo, il relax! Costa decisamente più dello stress). Potendo scegliere, come negli anni passati, dislocate oltretutto nel mese di giugno.
Corsica, Sardegna o Costa degli Infreschi, abbiamo scelto spiagge lontane, a volte anche raggiungibili previa non brevissima scarpinata (l'anno scorso a Scario, per arrivare, ci facevamo anche una stupenda mezz'oretta di barca) con addosso tutti i nostri fagotti, giochi, ombrellone, pranzo al sacco.
Insomma, siamo decisamente fuori da qualsiasi ricerca di marketing che vuole le famigliole italiane con pargoli tutte votate alla spiaggia full-optioned praticamente dentro il salotto, con ombrelloni, bagnino muscoloso, bar-ristorante-toilette-ricovero-pizzeria-discoteca-piscina-baby parcheggio-infermeria-ecc.
Abbiamo scelto la libertà di fare mare senza (necessariamente) essere degli intruppati. In luoghi straordinariamente belli. (Mi pare sia arrivato anche il momento di precisare che non siamo martiri-della-vacanza-fai-da-te ma anzi ci siamo concessi tutto lo sbraco necessario).
E siamo stati benissimo: in compagnia, rilassati, senza pensieri.
Quest'anno invece, per motivi logistici e organizzativi differenti, la cosa migliore ci è sembrata affidarci al famigerato stabilimento balneare per famigliuole.
L'ho dichiarato già nel titolo, lo "faremo ancora", quindi nessuna preclusione e nessuno snobismo.
Una cosa delirante che vale la pena raccontare.
(continua...)

lunedì 12 luglio 2010

Ping pong

L'uomo piccolo, al telefono.
Dal mare.
- Babbo, babbo, stiamo giocando a ping pong. Però senza rete...
- E come fate?!
- Eh, abbiamo cominciato che la pallina rotolava. Poi abbiamo fatto qualche saltello piccolo. Ancora non siamo arrivati ai saltelli grandi da professionisti. Ora stiamo provando altri saltelli. Ah!, non ti offendere ma stiamo giocando con le tue racchette, di quando eri piccolo.
- Mmmh, ho capito e vi divertite? Stai imparando?
- Sì. Vabbè resta al telefono, devo andare di là a giocare. Ti saluto.

Ti saluto?!
Una volta si diceva "ciao babbo, mi manchi tanto, quando torni"?
Adesso "ti saluto".
Ho capito, passami la mamma, penso.

Ti saluto...
Ti saluto a chi?!

sabato 10 luglio 2010

Ieri silenzio...

...e oggi il ducetto ha ricominciato a dire bestialità.
Qui, l'articolo di Repubblica (ma avete visto che espressione ha in quella foto?!).

Dice, il ducetto, che la libertà di stampa non è un diritto assoluto.

Evidentemente non ha mai letto la nostra Costituzione.
Evidentemente non conosce la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo.
Evidentemente non ha mai sentito parlare di Rivoluzione Francese, Illuminismo.
Evidentemente... ma dove diavolo ha studiato?!
Ma, la conosce la Storia?

martedì 6 luglio 2010

Depenalizzazioni

L'estate è così, cambia le prospettive. Senza scuola i pargoli si sentono più liberi, senza scuola gli adulti hanno meno fretta.
Le chiacchiere si rincorrono tra i muri freschi e il caldo, fuori, è solo un lontano ricordo. Il verde ci accalappia, rotolandosi nell'erba, e ci stringe il cuore. Si ride.
Le regole si allentano come una cintura troppo stretta in vita. Si respira. E sembra più naturale rispettarle, quel poco.
Si corre, in bici o sui pattini inseguendo un proprio pensiero, che sia un desiderio di divertimento o un esercizio per migliorare. A volte, mentre scherziamo, ci sembra tutto più semplice. Regole, comportamenti, sfottò. Così l'altro giorno ci siamo lasciati andare.
Abbiamo derogato, mollato la briglia.
Così avremo un intercalare, innocuo, in più.
Siamo un po' meno formali.
...abbiamo depenalizzato il "che palle"!

venerdì 2 luglio 2010

Al fresco (l'importante è partecipare...)

Non è schizofrenia, se vi ricordate il post di ieri. L'estate è fatta di questi estremi: tra la calura diurna e il fresco delle colline, la sera. E' per cercare un po' di tregua che ci si arrampica verso l'alto, su un nastro d'asfalto che presto lascia il calderone della città per incontrare vigneti, coloniche che ti guardano da sopra, ville medicee e oliveti. Campagna.
Poi, d'improvviso, il bosco e tutto, ancora, cambia. La temperatura si fa dolce e sopportabile, l'umidità non è più appiccicosa di ossido di carbonio ma profuma di foglie ed erba.
Ci si distende: verso la tavolata già pronta, verso il tramonto fantastico, verso il prato. E il campetto di calcio. Due porte ed un pallone fanno la nostra gioia, dei pargoli e "di" pargoli. Anche desian sgambetta. E suda.
Poi chiacchiere rilassate e cibo.
E anche dietro la serata più innocua si nasconde qualche risorsa, se sono dei bambini che ti guidano. Perché a un certo punto ecco saltar fuori una squadra di cinque ragazzini, grandicelli. Cominciano guardandoti da lontano, mentre sgambetti tra i tuoi piccoli. Poi si fanno avanti: vogliamo giocare anche noi, vogliamo.
Giochiamo.
I ragazzini son ganzi, chiaramente semi-professionisti per l'età che hanno. Ce le danno di santa ragione e i pargoli, tutti e cinque quelli che ho attorno, non sanno più che pesci pigliare: la palla nemmeno la vedono più. Sono gol su gol, che subiamo.
Qualcuno comincia ad essere disperato (e piangerà tutta la sera, ben dopo la fine della partita), qualcun altro implora che l'adulto, io, prenda in mano la situazione e annichilisca gli avversari.
Avversari che peraltro sparano parolacce come fossero complimenti, millantano di "spezzare le gambe" e accampano mille scuse non appena perdono il pallone.
Insomma, ragazzini ben educati, pronti per una vita adulta da furbacchioni, da prepotenti. Vogliamo giocare, perché noi vinciamo.
Per fortuna, tra i pargoli c'è un piccolo saggio: "l'importante non è vincere ma divertirsi, giocare e imparare" cercava di consolare i suoi compagni. Inconsolabili, alcuni.
E, mi chiedo, piccoli lord educati a valori diversi e quindi perdenti?

giovedì 1 luglio 2010

Solleone

La scuola è finita da un pezzo ma noi siamo ancora qui, nell'asfalto urbano, sotto un sole ruggente. In attesa delle agognate vacanze (chi prima, chi dopo), i pargoli stanno frequentando i centri estivi.
Passano le loro giornate tra il giardino e i giochi, tra canzoni (che sanno a memoria già il secondo giorno e cantano a squarciagola in ogni momento anche a casa) e gite nel circondario. Fanno nuove amicizie (che magari durano appena lo spazio di due settimane ma che senti vive nei loro racconti), vestono in maglietta e pantaloncini. I sandali sdruciti.
Sembrano bambini di un'epoca remota e contadina, quando la sera la stanchezza li abbrancava e, in un vortice da mago di Oz, li stendeva implacabile nel sonno. Adesso, la sera, crollano addormentati sul divano. Consumati da una stanchezza felice, liquefatti dal loro essere bambini.
E ti viene da pensare che quando erano a scuola arrivavano a sera in modo diverso, anche la stanchezza era un'altra cosa: una tensione, un nervosismo capriccioso. Uno stress.
Così ti dici che la nostra vita, di tutti, organizzata come la conosciamo (scuola-lavoro-casa-mezz'ora di giardinetto di quartiere-compiti-far da mangiare) sembra una follia. Ci consuma ma non ci soddisfa.
Così ti chiedi che bambini sono quelli che alleviamo in certi miti odierni, che adulti saranno (e siamo) da sempre avviati ad un'esistenza fatta di impegni, responsabilità, competizione, ansia da prestazione.
A sei anni, a sette o dieci, l'unica ansia da prestazione che li rende felici e pieni è questa: la stanchezza di una giornata all'aperto, la libertà del gioco. La responsabilità di essere bambini.
Se sapessimo portare con noi, nel nostro viaggio esistenziale, un po' di queste emozioni estive, forse saremmo adulti migliori. Bambini migliori, sicuramente. Chissà.

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