mercoledì 29 dicembre 2010

Un filo di cielo


Non avendo né matite né colori, neppure carta se non gli occhi, sarà un filo di cielo a ricamare il percorso di un ritorno?
(Nikon D90, diaframma f/5.3, esposizione 1/40 sec., ISO 1600 - martedì 28 dicembre 2010, Passignano sul Trasimeno, PG, ore 17.14).

martedì 21 dicembre 2010

Letterina

Al Parlamento Italiano
(630 Deputati e 321 Senatori - licenziamo anche quelli a vita)


Raccomandata A.R.

Oggetto:
notifica di licenziamento


Egregi Signori,
siamo spiacenti di informarVi che abbiamo deciso di rinunciare alla Vostra collaborazione. Tale provvedimento viene adottato per la seguente motivazione:

  • sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie)
  • condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario
  • abbandono ingiustificato del posto di lavoro
  • reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento (basterebbe la rissa di ieri)
  • rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione


Per i giorni di mancato preavviso non Vi verrà corrisposta alcuna indennità sostitutiva.
Vi invitiamo a prendere contatto con l'Ufficio Personale per il ritiro delle Vostre spettanze e dei documenti lavorativi.

Distinti saluti.


(Questo post aderisce all'iniziativa di Viviana)

lunedì 20 dicembre 2010

Fiducia

Fiducia è una questione importante che porta con sé una serie infinita di implicazioni. Alla fine del percorso, tutto può essere riassunto in autorevolezza.
Leonardo Sciascia, che oltre ad essere stato un grande intellettuale civile è stato Parlamentare, lasciava dire a don Mariano Arena (uno dei personaggi di "Il giorno della civetta") che l'umanità, "bella parola piena di vento", poteva dividersi in cinque categorie: "gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà".
Il nostro Parlamento è oggi pieno di quaquaraquà ed è lo specchio del comportamento sociale diffuso nel Paese. Tanti quaquaraquà dirigono istituzioni o enti e aziende statali o, peggio ancora, sono Ministri della Repubblica.
Tanti quaquaraquà siedono ai posti migliori di grandi aziende: ad esempio, quelli che si permettono, come nulla fosse, di licenziare dei lavoratori con una semplice telefonata alla vigilia di Natale. Quaquaraquà ci dirigono e dispongono di noi, cittadini.
Fiducia implica responsabilità: ottenere la fiducia di qualcuno non può essere una merce. Dare fiducia, invece, chiama ad una responsabilità. Non voglio dire che si arrivi a correità, ma cosa può fare ognuno di noi per non sentirsi, appunto, complice? Come spieghiamo ai nostri figli, bambini oggi e cittadini domani, che cosa vuol dire fiducia e come la dobbiamo usare, nel mondo?
Se spieghi loro perché un uomo ricco e potente si sia messo a farsi gli affari suoi in pubblico capiscono che c'è qualcosa che non va. "Ma non è giusto" ti dicono "è già ricco, ha già tutto! E cosa fa per noi che non siamo come lui?".
I bambini capiscono, nella loro semplicità di ragionamento ti danno molte risposte che tu, adulto, spesso non sai più vedere. I bambini li vedono benissimo i quaquaraquà. Te li indicano col dito e solo chi non vuol vedere, non vede.
Ho sempre creduto, e sempre più credo, che l'unica via che ci resta è l'impegno personale. E' sporcarsi le mani col mondo. E' fare noi qualcosa di davvero diverso da quello che non ci piace più ci venga fatto. Non lasciamo il nostro futuro in mano ai quaquaraquà.
I nostri figli ci malediranno se lo facessimo.
Chi di noi si candida ad essere un quaquaraquà, di fronte ai suoi figli?

lunedì 29 novembre 2010

Notte

...vieni via con noi...

Mangiare a mensa

"Mamma, anche le tue di lasagne sono abbastanza buone... però quelle che mangiamo a scuola, eeehh... sono più buone".

Potete voi immaginare uno smacco maggiore per una mamma, perfino food blogger?! Pare che la mensa scolastica sia meglio della cucina di casa...

Suggerimenti per ritirare su l'umore di una mamma depressa nel suo core-business?...

mercoledì 24 novembre 2010

Rappresentanza

E' buffo. Essere il rappresentante di classe, voglio dire. Perché uno s'immagina, da fuori, di essere una specie di figura burocratica. Di quelle che fanno da raccordo tra la scuola e i genitori o che si limita, in assenza di problematiche, a raccogliere denaro dai genitori e pagarci tutto quel che c'è da pagare: assicurazione, contributo volontario, cineforum, corso di musica. Assicurati che l'albero di natale venga fatto (prima, almeno, compriamolo...) e preoccupati del regalo alle insegnanti. A proposito: qualcuno ha qualche idea? Mediamente, mai.
Questo status ti permette anche di essere l'unico genitore che ha libero accesso alla classe: se devi parlare con le insegnanti e vuoi evitare il marciapiedi, cosa di meglio se non passare cinque minuti su in classe, prima che inizi la lezione.
Così per i bambini smetti di essere il babbo di una loro compagna di classe e diventi quello che ogni tanto, la mattina, compare sull'uscio. E ti guardano ormai come una presenza certa. Ti salutano come uno di loro, qualcuno addirittura viene lì e ti ciancica tutto: "oh, tu sì che sei caldo". Dev'essere l'inverno.
Ti sorprendi persino quando, in attesa che arrivi la maestra e due di loro fanno finta (finta?) di fare a botte, li intercetti: "fermatevi tutti e due, smettetela e mettetevi seduti. Forza!".
Oh, ti ubbidiscono. Quello che non ti riesce coi tuoi, a casa, qui magicamente accade come nulla fosse. Il potere dell'istituzione scolastica trasuda dai muri, evidentemente.
E io me lo godo, quel "potere". Ma come un dono.

giovedì 18 novembre 2010

Quando non c'erano gli skill

Ognuno ha le sue abilità. Chi parla sei lingue, chi maneggia la meccanica quantistica con la semplicità di un cacciavite, chi sa riparare un tubo che perde. Beh, se uno cerca un idraulico durante il fine settimana, come ci insegna Woody Allen, forse è meglio saper riparare un tubo.
Poi, c'è chi sa completare il cubo di Rubik. Ecco, in un pomeriggio di pioggia come questo, quando la donna grande e l'uomo piccolo hanno due compagni di scuola in casa, avere certe abilità può essere fondamentale. Io le ho.
Così, in un momento di stanca, l'ho preso distrattamente dallo scaffale. Ho attirato l'attenzione dei quattro pargoli (anche se due già sapevano cosa stava per succedere... "babbo, ma lo fai sempreee!") e poi gli ho chiesto di scomporlo tutto.
L'amica piccola dell'uomo piccolo l'ha abbrancato, l'ha mescolato girando ogni lato. Poi me l'ha ridato: "scommetto che adesso non ci ries.... scusa, eh, ma cosa si deve fare?". Ah, giovani moderni.
"Guarda cosa succede, amica piccola dell'uomo piccolo" ed ho cominciato a manovrare.
La soluzione del cubo di Rubik l'ho imparata ai tempi di scuola, quando alle superiori stavamo per i fatti nostri senza dare troppa relazione agli insegnanti. Prima uno schema riportato su carta, poi una serie di istruzioni come fossero righe di basic. Alla fine lo impari. A memoria, e non te lo dimentichi più.
Così adesso, a distanza di secoli, lo faccio ancora senza nemmeno pensarci, le mani si muovono, scorrono, voltano le facce. In pochi secondi l'amica piccola dell'uomo piccolo ha iniziato a cambiare espressione del viso: mentre avanzavo verso la soluzione i suoi occhi dicevano chiaramente "occavolo...".
Intanto la donna grande e la sua amica grande ci guardavano di sottecchi: "alla nostra veneranda età non ci freghi più coi tuoi giochetti, desian" e si son messe a fare i cavoli loro. Ogni tanto un'occhiatina, giusto perché la situazione non sfuggisse loro di mano.
Quando poi tutte le facce hanno preso il loro posto e il cubo è tornato "come nuovo" è stato il tripudio. L'amica piccola dell'uomo piccolo si è illuminata in viso: ha preso il cubo e ha cominciato a guardarlo come se fosse un'apparizione. Le due grandi hanno alzato gli occhi e anche loro han dovuto capitolare: stupore (anche se di superiorità) negli occhi. L'uomo piccolo ha preso a saltellare ovunque ululando "l'ha fatto il mio babbo, l'ha fatto il mio babbo, l'ha fatto il mio babbo".
Quando non c'erano gli skill, facevamo il cubo di Rubik. E, a distanza di tempo, in fondo, serve anche questo.
Il pomeriggio volge al termine. Continua a piovere. Però almeno sul bagnato.

mercoledì 17 novembre 2010

Differenze tra uomini e donne (secondo Ian McEwan)

"Abito in centro, a Londra, in una piazza e come in molte altre piazze di Londra, al centro di essa c'è un giardino. Il giardino è recintato e chiuso da un cancello e chi abita lì attorno ha la sua chiave. D'estate (siamo magnanimi!) lasciamo aperto il cancello per permettere a coloro che lavorano negli uffici vicini di poter stare nel giardino. Così nella pausa pranzo arrivano e consumano il loro pasto sull'erba: chi mangia il suo panino, chi qualcos'altro.
Un giorno mi sono messo a fare un po' d'ordine nella mia biblioteca. A togliere doppie edizioni e libri che non avevo più intenzione di tenere. Quando ho finito avevo messo insieme circa duecento volumi. Io e mio figlio diciottenne ci siamo caricati questi libri in spalla e siamo scesi in strada per gettarli.
Però, prima di andare al cassonetto, vedendo tutti quelli che stavano pranzando nel giardino, abbiamo avuto un'idea. Perché - ci siamo detti - non andiamo ad offrire a quelle persone alcuni di questi libri, prima di gettarli via? Magari c'è qualcuno a cui interessano.
Tutte le donne a cui ci avvicinavamo ci dicevano: "Oh sì, grazie!" e cominciavano a guardare i titoli: "questo l'ho già letto, questo l'ho letto, questo pure ma prendo quest'altro, non l'ho ancora letto" oppure "posso prenderne due o tre?".
Gli uomini a cui ci siamo rivolti hanno invece risposto (con una smorfia sul viso, ndr): "oh no caro!, non mi interessano proprio".
Insomma: se le donne non leggessero romanzi, il romanzo sarebbe già morto".

Ecco, anche quando parlano del loro ultimo successo editoriale, i grandi autori sanno darci, magari nascosta tra l'esegesi dei personaggi o dei capitoli e gli episodi della narrazione, qualche illuminazione più generale. Che riguardi le persone e come queste, donne e uomini appunto, affrontano l'esistenza.
Un potente raggio di luce che illumina, tra chiacchiere all'apparenza innocue (cominciano sempre prendendola un po' larga: anche stasera quando ha cominciato dicendo che abitava in una piazza del centro, l'uditorio ha cominciato a domandarsi dove volesse andare a parare. Qualcuno più tecnologico ha sussurrato "ecco, ora anche lui cita Google Street, così mi crolla un mito"), angoli oscuri, anfratti che non sempre riusciamo a vedere solo coi nostri occhi.
E invece no, non l'ha nemmeno nominato Google Street.
McEwan ha citato noi, la realtà reale. Una piazza, un mondo.
Con tutte le sue differenze.

Lo so, la foto è pessima... ma non si può avere tutto dalla vita. :-))

mercoledì 10 novembre 2010

Metti un finocchio a cena, Mister B

Troppo spesso parliamo, tra chi già è convinto, dell'anomalia italiana e di B. Forse ci stiamo parlando addosso (forse?) e continuiamo a farlo, senza mai rivolgerci a nessun altro che a "noi". A volte mi sembra una strada senza sbocco. E pure senza fine. Altre volte semplicemente un'ossessione.
Io penso che la vera anomalia non sia un singolo, per quanto potente e impresentabile. Penso che la vera anomalia sia chi gli va dietro, una società che in parte, in buona parte, la pensa come lui. Si lascia blandire, sorride di battute che sono pure bestialità. Qualcun altro, al massimo, se ne frega.
Vorrei dedicare la giornata del "finocchio per B" a chi la pensa come B stesso, a quelli che sghignazzano. A chi lo vota senza rendersi conto di quale sia la vergogna in cui trascina tutti.
Uso parole non mie, mi pare più adeguato. Uso parole di Antonio Gramsci.

«Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero».

Parole pesanti. Come macigni, che strappano le coscienze. Buone responsabilità a tutti!

lunedì 8 novembre 2010

Finocchi per B

Segnalo un'iniziativa interessante, nata da un gruppo di food-blogger. Il fatto che tra loro ci sia anche, o soprattutto, la profe non toglie e non aggiunge nulla alla validità della cosa.
Naturalmente mi astengo da qualsiasi commento nel merito riguardo le dichiarazioni inquietanti del Presidente del Consiglio: non voglio rischiare la denuncia.

Qui c'è il link che spiega meglio di cosa si tratta.
Partecipate come volete: se siete food blogger potete pubblicare una ricetta ma potete anche semplicemente pubblicare il banner sul vostro blog o su Facebook o dove volete.

Il giorno è mercoledì 10 novembre.
Io lo farò.

lunedì 1 novembre 2010

Corrispondenze

Da un po' di tempo l'uomo piccolo intrattiene una fitta corrispondenza epistolare. Con babbo natale.
Ottobre non è ancora finito e lui ha già scritto e stracciato un paio di missive. Siamo alla terza.
Ieri sera arriva, giulivo come solo un settenne sa essere. Eravamo a tavola: "babbo, va bene ora si mangia, però dopo ti leggo la lettera".
"E a chi hai scritto, uomo piccolo"?
"Ma come a chi! Ma a babbo natale, eh"!!!
Eh.
Siamo avanti, siamo troppo avanti.
Dopo i primi anni in cui si iniziava salutandolo, a babbo natale, adesso si va al sodo. L'unica forma di cortesia è rimasta il "vorrei". Ma quella è una stortura dell'educazione repressiva. La perderemo presto.
Intanto, per ora, sempre che non stracci anche questa e ne scriva una quarta, vanno di gran moda i controli remoti: una collezione intera di roba telecomandata, auto, gru, elicottero, camion dei pompieri.
Oh, se non cambia idea tocca comprare un garage.
Vedrete che la cambia, la cambia.

sabato 30 ottobre 2010

Un complimento

Crescevamo tra donne. Gli uomini lavoravano e, nell'Italia del boom, non c'era tempo (non c'era modo?) per stare coi figli.
Ascoltavamo le donne. Anche noi maschietti eravamo spesso catapultati in storie inverosimili di amori traditi, fatiche casalinghe, malanni ancestrali che non avevano un nome ma solo dei segni. Sembravano un miracolo, però al contrario.
Qualche volta restavamo schiacciati da tante parole, in quei pomeriggi uggiosi d'estate, quando il sole era ancora troppo alto per uscire per strada, e bisognava restare in casa. Riposare un po'. A nove anni riposare significava almeno stare ad ascoltare. Il tempo passava più veloce, lo spazio si riempiva di vecchie parenti lasciate in campagna, di lavori d'un tempo, della difficoltà di essere state strappate alle proprie origini. Si stava in città, anche se era soltanto un paesone.
Nella testa, mi frullano ancora parole e storie, situazioni di donne. Racconti.
Stasera, ad un compleanno, un babbo parlava di un altro bambino e diceva: "ah, ha un carattere bello, espansivo. Parla tantissimo, come una donna".
Ecco: un complimento così l'avrei voluto per me. Un piccolo uomo che parla (e quindi magari parlerà anche da adulto), che sa esprimere il suo mondo, che non resta mutanghero e attorcigliato intorno a pensieri che non sa decifrare.
Un ragazzino che racconta.
Fantastico un uomo che parla come una donna.

venerdì 29 ottobre 2010

Ironici e abominevoli

All'ennesimo possibile reato del Presidente del Consiglio, che ormai spazia dai grandi reati economico-finanziari fino ai risvolti malavitosi da marciapiede, stavolta particolarmente odioso, ecco ripartire l'ironia da stadio.
Naturalmente il Premier ci mette del suo: "aiuto chi è in difficoltà". Travestito da babbo natale dell'abuso di potere a favore degli "amici", si rende davvero un ominicchio.
Facebook si traveste da curva e si riempie di "ironici" (?) commenti e facezie da buontemponi (!): "pagami le bollette", "aiuta anche me". Massì, facciamoci quattro risate. Siamo ridotti a questo. Invece di vedere il reato o, almeno, il laido che c'è in quell'uomo, ci ridiamo su. E bravi pagliacci.
Persino Repubblica, che ha un po' perso la trebisonda sulla realtà che ci circonda, ci sguazza, spiegandoci a modino cosa sia il "bunga-bunga", quale siano le, persino!, nobili origini: a questa specie di scherzo da dementi partecipò persino Virginia Woolf. Quindi, che volete voi, o pezzenti?
Ebbene, non ho nulla da dire. Soltanto tre domandine, facili-facili, come quelle dei telequiz:

1) ma sia proprio sicuri che ci sia da fare dell'ironia su qualcosa che significa "stupro di massa"? Ma ci siamo tutti bevuti il cervello, o cosa?

2) ma è possibile che il codice penale, che servirebbe a dirimere e sistemare alcune questioni, quando esse si presentano, non valga proprio più nulla in questo Paese?

3) esiste (o è mai esistita) una opinione pubblica seria, matura e responsabile in questo Paese? O ci siamo tutti, donne e uomini, trasformati in fantastici, splendidi, abominevoli cazzoni?

Buona giornata.

giovedì 28 ottobre 2010

In ritardo

Arrivare tardi. E vederli sfiniti, sulle loro seggioline, che finiscono di cenare ma in realtà la stavano tirando per le lunghe, solo per aspettare te.
Le giornate finiscono e sfiniscono anche i grandi, anche se li pensi da qualche parte, tra le quinte della loro vita quotidiana: in classe, dai nonni, in palestra.
Aspettavano te perché l'appuntamento serale è con la lettura del "nostro" libro: La guerra dei bottoni.
L'uomo piccolo non ce la fa, crolla. La donna grande vorrebbe ascoltarti lo stesso.
Poi però si rende conto che non è la stessa cosa andare avanti con la lettura senza che ci sia suo fratello ad ascoltare, insieme a lei.
"Babbo, spengi la luce. Lo leggiamo domani sera, se torni prima".
Ci puoi giurare che torno prima, domani.
E anche dopodomani.
E dopo.
E.

mercoledì 27 ottobre 2010

Prendere esempio

Ecco, per fortuna, uno gli amici se li sceglie. E spesso ti riconosci senza saperlo, perché le parole passano anche senza dirsele.
Mi spiego meglio.
Sto ragionando intorno ad un mio progetto mentale che dice "ereditare dai figli". E' una frase che mi circola in testa, dopo aver letto un articolo di Giorgio Vasta su Repubblica qualche giorno fa.
L'articolo era molto interessante, parlava di come si sono formati i modelli culturali di noi quarantenni italiani. Eccolo.
Poi la 'povna, l'amica di cui sopra, scrive questo post che parla di molte cose importanti. Che sta facendo lei, da singola cittadina e da insegnante, e che stanno facendo i suoi ragazzi, a scuola.
Cose importanti e belle che, come dice lei, sembrano aver perso smalto e a cui invece dovremmo avere forza, coscienza e lucidità per ridargli un significato profondo.
Forse, si dice talvolta la 'povna, saremmo noi adulti.
Le ultime righe per me una folgorazione, con quel che mi gira in testa.
A dover prendere esempio dai figli.
Ereditare da loro.

Queste sono le ultime righe del post della 'povna, così, come una sottolineatura mia (anche se non ne avrebbero bisogno, io ne ho bisogno):

Credo che si debba riflettere bene, prima di bollare facilmente ogni forma di protesta come sterile e poco meditata. Per la verità, mi pare che gli studenti, pur usando forme che hanno perso, al giorno d'oggi, molto smalto, facciano di tutto per ridare loro un significato profondo e personale.
Forse, mi dico talvolta, saremmo noi adulti a dover prendere esempio da loro.

domenica 24 ottobre 2010

Infiniti

Tuo figlio si è addormentato sul fianco, nella posizione del "4".
Il respiro è regolare e lento, fa alzare e abbassare il pigiamino e, al posto dell'energia vitale (quella che lo fa schizzare in ogni dove sotto lo stimolo continuo delle sue sinapsi), ci sono la rilassatezza e l'abbandono totali.
Ma quale sarà mai questa posizione del "4"?
Il busto leggermente inclinato in avanti con le mani infilate quasi sotto la gota. Le cosce piegate con un leggero angolo acuto e i polpacci verso il basso, stavolta a 90 gradi. Piedini sovrapposti e distesi.
Tu, che sei suo padre, lo guardi per un po' respirare. Lo carezzi: è tenera, la postura.
Poi non puoi resistere. Ti stendi lì accanto e, come una valva, aderisci perfettamente alla sua posizione: busto in avanti, cosce piegate, polpacci all'ingiù. Lo contieni, sei la sua scatola, il guscio.
Siete due quattro, adesso. Vicini, praticamente uno solo. Un'addizione di respiri.
E quattro più quattro fa otto.
E otto, "8", girato su un fianco, è il numero dell'infinito.

lunedì 11 ottobre 2010

Consumismo

Stamattina la donna grande squadra con occhi assonnati il pacco dei biscotti che mangia di solito a colazione.
C'è su uno dei soliti, idioti concorsi. Questo dice "Vinci 10 sveglie ogni giorno".
La donna grande legge, è evidente dall'attenzione che ci mette. Poi fa una faccia, avreste dovuto vederla: ciglia sollevate al massimo dell'estensione, occhi spalancati e bocca aperta.
Si gira verso di noi, mezzo secondo scenografico di incertezza e poi:
"Scusate, ma che ci fa uno con 10 sveglie 'al' giorno"?!?!?!
Appunto.
E per fortuna i bambini sono più intelligenti (e dissacranti) di qualsiasi genio del marketing.

venerdì 8 ottobre 2010

E' famoso, per fortuna

Nobel per la letteratura a Vargas Llosa.
Stamattina 'Repubblica' tira un sospiro di sollievo e titola: "Il Nobel questa volta è famoso". Perché, come spesso capita a quei riottosi dell'Accademia svedese (che, avendo ormai ben chiaro come i premi siano discutibili, puro marketing, si prendono spesso il lusso di premiare per motivi politici), anche stavolta erano circolati nomi difficili, gente che va letta con qualche sforzo, che ci interroga chiedendoci la fatica di seguirli su sentieri non consueti. Così era stato per Lessing (definita "autrice illeggibile", se non ricordo male da un giurato dello stesso Nobel) oppure, lo scorso anno per Herta Muller: autrici non già premiate dal mercato (la Muller era a mala pena tradotta in Italia...) e a cui il Nobel non avrebbe fatto aumentare tirature e vendite. Due autrici donne, peraltro, bistrattate dal mercato e dall'establishmet culturale (che in Italia spesso sono la stessa cosa) senza pietà.
Invece vuoi mettere quanto sia meglio vincere un bel Nobel con Pamuk o Vargas Llosa, autori già riconosciuti e ben venduti, ai quali stuoli di addetti markettari possono tirare una splendida volata fatta di vendite, di incassi, di copie ristampate e impilate anche all'Esselunga. Ma con fascetta celebrativa, beninteso!
E a nulla importa che tanti librai e lettori in giro per il mondo già conoscano e apprezzino e leggano e vendano da anni, pur senza imprimatur, certi grandi autori e grandi libri. Vincere fa vendere due, tre volte.
Grandi discussioni si potrebbero aprire sui gusti del pubblico dei lettori (o sui consumi dell'industria culturale). Molto spesso si dice che il pubblico (i consumatori) non è affatto impreparato e anzi sceglie con piena cognizione di causa. Personalmente credo ci sia invece tantissima pressione sui nostri gusti da parte di pubblicità e strategie promozionali in genere: molto spesso (quasi sempre?) scegliamo perché ci hanno "consigliato".
Vendere, vendere, vendere. Che non ci sarebbe niente di male. Se un lettore potesse leggere su un quotidiano qualche notizia interessante invece che il sospiro di sollievo tanto atteso: "oh, almeno stavolta Vargas Llosa si vende".
Altro che populismo mediatico.
(E speriamo almeno che qualcuno, stamattina, dopo aver saputo la notizia, sia corso in libreria a comprarsi un libro del peruviano - "come si chiama? Quello lì, quello che ha appena vinto il Nobel" - rinunciando a quel fantastico paio di scarpe che aveva adocchiato in vetrina o a quello miracoloso "mai-più-senza che proprio mi mancava". Almeno ci avrà guadagnato un libraio: categoria a rischio estinzione).

venerdì 1 ottobre 2010

Madre e figlia

In treno. Di fronte a me, una figlia poco più che ventenne e sua madre, perfettamente alla moda. Conversano. Poca ironia e una dinamica fatta di reciproci rimbrotti, neanche troppo affettuosi. Quasi un'educazione. Più la figlia alla madre che non viceversa.
A un certo punto - la temperatura nel vagone è piuttosto bassa - la madre mette il giaccone che la figlia si era tolta poco prima.
Fanno il punto sul loro fine settimana a Firenze poi la figlia telefona al fidanzato. La mamma invece riceve una chiamata da un'amica che le augura un "buon fine settimana". Il marito, e padre, è rimasto a Milano.
E se fosse una fuga, una vacanza tutta femminile: madre e figlia che scappano dalla routine milanese?
Poi, quasi con una manovra da prestigiatore, salta fuori un iPod Classic e le due condividono gli auricolari, uno per ciascuna.
Certo, potrebbero essere dirette verso un'"uscita culturale": Uffizi, Pitti, Accademia, Piazza Santa Croce, Ponte Vecchio.
La ragazza dormicchia, la mamma guarda fuori dal finestrino pensierosa poi si stringe nel giaccone di sua figlia quasi a richiamare un po' di tepore che, a quanto pare, non è ancora arrivato.
O magari stanno semplicemente andando a trovare qualcuno: un parente lontano, un'amica con un bimbo appena nato, l'anziana nonna. Ma no, magari alla fine è solo shopping.
L'immagine dei due visi col filo bianco degli auricolari che scende, uno di qua e l'altro di là, è poco "chiara" nel mio orizzonte. Sono forse amiche che condividono una comune passione musicale? Oppure esiste un ruolo di genitore e uno di figlia/o, con tutto quel che questo vuol dire? Dove i compiti non si confondono, dove le rispettive responsabilità sono ben definite.
Buffa, questa forma tutta contemporanea di madri/figlie che si rincorrono nell'assomigliare una all'altra, nell'essere una l'altra, nel vivere dentro il confine strettissimo della cellula familiare come orizzonte ultimo.
C'è un'altra ragazza in un sedile poco più in là che riceve in continuazione telefonate da amici/che ed è tutto un profluvio di chiacchiere, esplosioni di risate e confidenze e scambi di battute e appuntamenti alla fine del viaggio.
La figlia no, lei solo una telefonata al fidanzato poi basta: la mamma e il loro iPod. Il babbo, e marito, è rimasto a Milano.
Cosa ascolteranno?...

mercoledì 22 settembre 2010

Sarà l'autunno

Sarà l'autunno che ci scompiglia le carte?
La profe ha cambiato ancora scuola (la terza in tre anni) e stavolta è più spaventata che mai in passato; la donna grande è entrata in crisi con le sue lezioni di piano e dice che vuole abbandonare (dopo aver detto basta anche al nuoto, anno scorso); l'uomo piccolo ha cambiato piscina e siamo in attesa di capire come siam capitati; desian, che soffre sempre l'avvio autunnale, è preso da malinconie ancestrali.
Mmh, l'autunno...
A qualcuno bisognerà pur dare la colpa.

In compenso: la profe si sta dedicando alla cucina con una passione e un divertimento (e successi bloggheschi, qui) mai visti prima; la donna grande vuole iscriversi ad un corso di arrampicata sportiva; l'uomo piccolo ha un enorme rigurgito di passione per la sua bicicletta e sta diventando sempre più abile; desian ha scoperto, alla bellezza di quarantaquattro anni, il piacere, direbbe quasi la gioia mistica, di andare a nuotare in piscina.
Ah, l'autunno!
Per fortuna si cambia pelle. Ogni tanto.

mercoledì 8 settembre 2010

Il viale e il fiume

Avete mai ascoltato - alle otto del mattino, sotto il cielo che è una cappa plumbea ma niente affatto fredda, nel riverbero di una luce tutta strana tagliata sotto le nuvole laggiù in lontananza, sul bordo di una piscina all'aperto che si fa largo tra il viale trafficato e il fiume -, avete mai sentito il fragore che fa una massa d'acqua presa a ceffoni da un intero branco di brufolosi ma vigorosissimi nuotatori sedicenni che si allenano?
Con quei corpi che, prima ancora di calare in acqua, s'attardano sul bordo e non sono né belli né brutti, non esageratamente muscolosi come quelli gonfi dei culturisti ma danno invece un'impressione nettissima: quella d'essere corpi ben piantati. Sani e forti.
Ché, se vi fosse capitato di sentirlo, quel fragore, vi rendereste conto così come ho fatto io (magari astraendovi un momento dai rumori circostanti) che c'è una sorta di eco in quel fragore di liquido che va in frantumi ad ogni bracciata. E' come un riverbero, un cristallìo chiarissimo che si rincorre, e se ti metti a guardarli mentre vanno avanti e indietro, avanti e indietro e avanti e indietro sul pelo di quell'acqua vagamente azzurrina e al cloro, sembrano tanti vagoncini lanciati a bomba verso un domani che si frange, e ritorna virando, sulla sponda opposta.
Perché quell'allenamento va proprio nella direzione del futuro, della speranza di cavar qualcosa da tanta fatica: una medaglia o tante, una raffica di articoli di giornale, i ricchi premi della federazione nuoto e, se va ancora meglio, una finestra televisiva magari dentro un qualche "grande fratello".
Io invece, che per mestiere amo distorcere le immagini o i pensieri che mi si parano davanti, li vedo ora come se fossimo in una piscina di Pechino o di Omaha, Nebraska, o come se fossero sotto le amorevoli cure di un trainer sovietico o tedesco orientale e mi sembrano gli stessi ragazzi che fanno gli stessi identici gesti. Stessa fatica, chissà.
Ma già settimana prossima, quando riprenderà la scuola, quella piscina alle otto del mattino resterà deserta, l'acqua al cloro ferma immobile sotto il telone di protezione. E quei ragazzi - fra solo qualche anno potrebbe toccare ad uno dei miei svegliarsi alle sette per andare a fare allenamento - torneranno a fare un'altra fatica forse più adatta alla loro età che cerca formazione alla vita, una strada per l'esistenza adulta.
Sui banchi di scuola, a cercare altri limiti, altri tempi, altri record e la massa d'acqua resterà silenziosa e nessuno guarderà là dentro.
E il viale rumoroso e il fiume continueranno a scorrere.

giovedì 2 settembre 2010

Appendice (post)vacanziera

La luce era radente sull'acqua, a quell'ora. La separazione tra dentro e fuori era nettissima.
La donna grande, dall'alto delle sue prime certezze, e l'uomo piccolo (regolarmente equipaggiato di braccioli - due stagioni di corso di nuoto non sono riuscite a dissipare tutte le difficoltà...) guardavano giù dentro il lago domandandosi se mai ce l'avrebbero fatta.
L'acqua era buia.
Avevano sulle labbra il sorriso stirato dall'incertezza: tutti lo conosciamo, tutti l'abbiamo avuto uguale, almeno una volta a quell'età. Magari un pomeriggio.
Loro guardavano noi, che li guardavamo ancora più incerti, con l'incredulità di quello che stavano per fare. Che dovevano fare. Saltare dentro l'acqua, "tuffarsi", dalla piattaforma dei tuffi, quella vera, alta abbastanza lassù sopra una prima volta.
Era uno scambio di sguardi fortissimo, direbbe il poeta; a ripensarci, soltanto a pochi giorni di distanza, è stato un momento sospeso tra il desiderio di saltare, la paura di farlo, l'incertezza assoluta negli occhi di coloro che dovrebbero rassicurarti.
Non so se quel momento, quell'infinitesimale lunghissimo attimo, sia stato sufficiente a far di loro persone migliori. Non so se se lo ricorderanno per il resto dei loro giorni (magari no, magari se lo sono già dimenticato...) ma il passaggio del dubbio, del senso del limite, della paura in quei loro occhi fiduciosi è un effetto che lascia qualche scia di riflessione. Per giorni.
Non so loro. Io, in quel momento, ho sentito che avevo paura con loro, vivevo il loro dubbio, assaporavo lo stesso senso del limite.
Il lago era immobile, fermo come una pozzanghera. Ho smesso di respirare per un attimo.
Poi, si sono tuffati.

giovedì 19 agosto 2010

Notte al rifugio Vajolet

Dopo l'alba sul mare, quest'estate ci concediamo tutto: una notte in rifugio sulle Dolomiti. Sotto le torri del Vajolet.
Uno spettacolo...

domenica 15 agosto 2010

Nova Levante

E’ una sensazione che provi soltanto una volta l’anno, quella di sovrastare qualcosa pur sentendoti piccolissimo. Non è come stare in un condominio di città dal quale vedi sotto di te la strada asfaltata e, se sei più su di un quarto o quinto piano, hai persino una vaga sensazione di vertigine. Del tutto artificiale.
Sei su un balcone che aggetta parecchio e sotto di te, ma laggiù piuttosto lontana (e sei soltanto ad un secondo piano), a digradare ulteriormente metro dopo metro, si distende la valle di un verde talmente intenso da sembrare sciroppo di menta in un bicchiere: un taglio profondo e stretto tra due file di colli neanche troppo elevati, che corrono di fronte e dietro di te. La sua forma è quella di una “V” (ma con le pareti molto più alte…) e piega così tanto mentre sale verso te che se anche ti sporgi parecchio dalla balaustra in legno del balcone non riesci a vederne l’inizio, laggiù dalla strada di fondovalle. Ti sporgi e la valle piega, e tu ti sporgi ancora così devi accontentarti di vederla scomparire dietro l’angolo dell’enorme cornicione di abete massiccio chiarissimo.
Ma tutto ciò accade semplicemente a Ponente, in una forma che, come abbiamo detto, resta un mistero giacché non si può guardare direttamente la valle ma soltanto intuirla laggiù, oltre il cornicione di massiccio chiarissimo abete.
Volgendo invece lo sguardo, ecco là Levante che ti si schiude (ma è già aperta) davanti agli occhi. Perché tu sei quassù, su questo poggio comodo e sovrastante, e le casine tutte bianche e marroni (metà muratura e metà legno e tetto) sono in fila perfetta, come militari che aspettano l’ispezione. Le vie, lo spazio tra esse, ormai le hai già perfettamente nella memoria: scendendo in una semi-tortuosa strada provinciale ecco che le sparse case cominciano un po’ alla volta ad aggrumarsi e il paese, d’incanto, appare. La prima piazzetta (dopo la sequela di gast-haus, pension e hof), a sinistra, ha un mini-supermercato e la chiesa ma, quello che più conta, un fantastico piccolo negozio di fornaio con i bretzel più buoni che tu abbia mai mangiato in vita tua. Così buoni che, mentre continui a percorrere mentalmente la strada, la tua memoria è occupata quasi per intero dal ricordo sublime di quella bontà e così rischi di perderti qualcosa.
Invece: subito dopo la piazzetta del fornaio, sulla destra c’è una banca. Anche se stavi quasi dimenticando di citare che poco prima, sempre sulla destra, c’erano il municipio e, ancora un po’ più a monte, una scuola e la sua splendida biblioteca (anche pubblica), tutta in assi di legno e vetro.
Continuando a scendere è un po’ come un vortice perché stai dirigendoti verso il centro e lì la corrente comincia a farsi più forte. Nell’ordine: a sinistra un’affittacamere, un’altra banca, il rinomato (ma deludente) ristorante Pardeller, una infilata di finestre di vari uffici e il marciapiede pedonale che ti permette di bypassare un insidioso incrocio col suo “stop”; a destra un negozio di scarpe, un outlet di articoli sportivi aperto non più di due ore al giorno, un salone di bellezza (forse con annessa parrucchieria?) e il bar “Panorama” che da’ direttamente sulla parete della casa di fronte e sul medesimo incrocio insidioso (e peraltro unico del paese) per cui non si capisce proprio a quale panorama voglia far riferimento quel nome. Improbabile.
Se avanzi ancora con la memoria (perché tu sei su questo poggio sovrastante) ecco che ti viene incontro il downtown: una pizzeria-ristorante non affatto rinomata e quindi molto meno deludente di Pardeller, una macelleria che esiste (dice la scritta sul muro) dal ‘700, un emporione travestito da negozio di artigianato locale che vende qualunque cosa (cartoline, maglioni, cucchiaini di peltro, carte dei sentieri, aberranti oggetti in legno da appendersi in casa, calzettoni, apribottiglie, candele) e nulla che sia neanche lontanamente stato fatto da mani artigiane, l’ufficio dell’APT, un altro negozio di fornaio (i bretzel non sono così buoni come quelli del fornaio più sopra), un supermarket con prezzi da gioielleria. In fondo in fondo, semi-nascosta dietro alcuni posti macchina perennemente occupati, c’è persino una lavanderia: qui finisce il paese. Oltre, esiste solo una strada che porta ai passi (Costalunga, Nigra) e al lago di Carezza.
Infine, volendo, puoi alzare lo sguardo sopra i tetti e dietro i colli neanche troppo elevati (quelli coperti per intero da abeti e larici di un verde impossibile) ed ecco qui di fronte il Latemar calcareo e laggiù in fondo, a chiudere la vista verso est, il Catinaccio color delle rose al tramonto. Pezzi di roccia che non puoi comprare, che resterebbero lì al loro posto anche se non ci fosse nessuno a guardarli a bocca aperta, che fanno di te il minuscolo spettatore di una bellezza senza motivo. Perché così sono questi monti: straordinariamente belli e affascinanti, pieni di scorci e leggende nascoste in ogni angolo, anfiteatro naturale per il tuo piacere, il pieno dei tuoi occhi. E l’anima del turista, come per l'ennesima magia, scompare.

venerdì 13 agosto 2010

Acchiappanuvole


In un giorno così sofisticato, pieno di riverberi biancastri appallottolati insieme all'umido che vien su da valle, c'è un'unica soluzione possibile: imbattersi in un acchiappanuvole professionista, uno che abbia l'arnese giusto per catturare la tua attenzione, svaporata assieme al meteo.
Così mi immagino una Bolzano di inizio-ma-non-troppo Novecento (diciamo subito dopo la Grande Guerra), anni di Déco, Bauhaus, primo razionalismo, nella quale qualche carrozza percorre le vie porticate o approda in Piazza Walther per la funzione serale.
In questo via-vai, un loden scuro si aggira silenzioso ai lati del selciato, un cappotto di lana impermeabile che contiene il nostro acchiappanuvole: Karl Felix Wolff. Quarantenne un po' sghimbescio e tanto miope, Wolff è colui che, con lavoro da instancabile passeggiatore, ricostruisce le antiche leggende dolomitiche estraendole, come metallo da miniera, dai ricordi appannati di pastori, preti, vecchiette, contadini. Questo tizio, abbastanza cerimonioso ed intelligente da vincere le ritrosie di così tanti montanari di ogni valle, succhia parole e personaggi anche a brandelli, una strofa qua, un frammento là, e li ricuce uno ad uno con grande precisione e rispetto: butterà via infatti tutto quello che non trova congruente. Le parti che non si legano a nessun'altra finiranno nella spazzatura della memoria. Così facendo, il suo lavoro si rivela prezioso ed esattissimo; egli salva solo ciò che i riscontri di tante voci gli danno per certo: il re Laurino, la principessa della Luna in onore della quale viene tessuta un'immensa coltre argentea per coprire i monti e renderli "pallidi", la sirenetta Ondina, le rose che tingono del loro colore il Catinaccio (Rosengarten, appunto, in tedesco) al tramonto, sono tutti parte dell'antico retaggio orale di questi luoghi.
Splendide storie, magiche presenze che aleggiano nell'aria in giorni in cui persino le nuvole sembrano divertirsi a danzare davanti agli occhi del turista rapito. La magia dei monti pallidi passa anche dai suoi racconti...

giovedì 12 agosto 2010

Artigiani della convivenza

Te le vedi venire incontro da lontano, su quei terrazzamenti che quasi ti si offrono, nel sole o nella pioggia poco cambia perché sono nettissimi comunque, i colori. Sembrano proprio una nebbia che sale diretta dalla terra, una foschia fatata che sfrangia la luce e ti colpiscono sempre, te turista distratto da altri punti focali, perché in realtà sono dappertutto e non volerle guardare sarebbe uno sforzo.
E’ delle reti di protezione dei meleti che sto parlando, di quelle sottili ali che coprono gli alberi per salvaguardare le preziose golden dai danni (estetici, perlopiù) delle copiose grandinate estive. Se le prime volte che mi è capitato di vederle mi hanno lasciato senza parole, oggi che ormai le conosco ho capito lo spirito che le sottende.
Questo mi piace, oltre tutto il resto, di questa terra e della sua gente: la capacità tutta artigianale e di un profondo ingegno (mi vien da riassumere in una sola parola, operosità) di far fronte alla natura quando è avversa. La grandine potrebbe rovinare le nostre splendide mele? Ebbene, non è inevitabile la grandine, non è un’imprevedibile fenomeno atmosferico, no. Noi riusciremo a venirne a capo, troveremo il modo di domarla e renderla inoffensiva. Questo pensano gli imprenditori agricoli di queste parti e questo fanno. La distanza tra idea e realizzazione si abbrevia molto, quassù, fino a toccarsi e sconfinare una dentro l’altra: qui il fenomeno atmosferico non è una punizione divina da scongiurare ma ci si organizza per limitarne la portata, i danni. La secolare abitudine di convivere con gli elementi: la montagna e la sua potenza immane, la campagna da far fruttare al meglio. Organizzarsi per rendere possibile la convivenza stessa.
E se è cosa normale trovare un impianto di depurazione sul ciglio di una importante e trafficatissima strada, quindi sotto gli occhi di tutti (“non abbiamo niente da nascondere” è chiaramente il sottotesto), è altrettanto banale che si sia affrontato un argomento così impervio come la neutralizzazione della grandine e lo si sia risolto. Perdonatemi l’ingenuità letteraria, ma io li vedo quegli uomini seduti attorno a un tavolo discutere sul “cosa fare” per salvaguardare le mele e “su come farlo”. Li vedo, con un foglio di carta di fronte e una matita in mano, tirare giù schizzi di progetti possibili. Una sorta di leonardismo del quotidiano: non sarà il proto-elicottero del genio di Vinci ma pensare di coprire ettari ed ettari di frutteto con altrettanti ettari di protezioni retate a maglie strettissime ha un che di titanico e di casalingo allo stesso tempo. Profuma di impresa e di strudel, di ingegno.
Conosco la gente di qui come persone di un’onestà, umana ed intellettuale, fuori dal comune, con un senso di civismo e di comunità che fa davvero impressione. Il senso della condivisione è fortissimo e sembra che non ci sia nulla di più importante dell’efficienza della loro vita quotidiana: se tutti fanno il loro dovere al meglio (esempio banale: se tutti pagano le tasse che devono), avremo un’esistenza più agevole di quella che potremmo garantirci individualmente.
Certo, molte sono le contraddizioni, le spinte contrapposte, i rovesci della medaglia. Ad un forte senso di comunità corrisponde una certa chiusura, una difficoltà ad aprirsi; il conservatorismo totale (e politico) è spesso il risultato finale della grande attenzione e gelosia verso le proprie tradizioni, gli usi e costumi, fin quasi a rasentare la paura per ciò che è diverso e non puro: negli anni ’30 e ’40 era facile vedere per queste valli, durante i cortei che salivano agli alpeggi, comparire tra le mani dei malgari stendardi con l’infame croce uncinata dei nazisti oppure, ancora oggi, se interrogati su un fantascientifico conflitto armato tra Sudtirolo e resto d’Italia, ti rispondono senza alcuna esitazione che saprebbero “da che parte voltare il fucile”.
Contraddizioni profonde che hanno radici contorte e storicamente fondate (da ultimo, lo Stato italiano visto come usurpatore dell’appartenenza tedesca o, quantomeno, austriaca) che fanno ancora di queste terre non soltanto il luna park del turismo consapevole e di (altissima) qualità ma anche il curioso e affascinante ritratto di una società civilissima e, sinceramente, per moltissimi aspetti, invidiabile.

martedì 10 agosto 2010

Al rifugio

La salita è un accumulo di passi, un leva-e-metti continuo delle tue suole in vibram. Metro dopo metro ti avvicini a quella meta decisa a colazione tra fette biscottate con marmellata di more e il latte giallo di grasso perché appena munto. E la meta, vista l’ora (il calcolo, quando anche del tutto casuale, torna sempre sul tempo del pranzo), non può essere che un rifugio: uno di quei tavoloni dove la tua passeggiata, lo sforzo immane per cui ti sei trascinato fin qui, si acquieta dentro un piatto di canederli in brodo, di polenta coi finferli, di yogurt bianco coi frutti di bosco. Questo ti basta: che tutto ci sia. La tua sicurezza è quello scambio certo: cibo e magari anche un caffè, alla fine.
La meta agognata ha però un dietro le quinte: basta entrarci, dentro un rifugio, mentre la torma prende d’assalto ogni tavolo, ogni centimetro delle panche di legno per capire cosa ci sia dietro la tua presenza in quel luogo. Vederla, la cucina di un rifugio alpino, è a mio avviso quanto di più vicino ad un alveare in piena attività: li vedi schizzare in ogni dove gli addetti al tuo cibo anzi, piuttosto, li senti perché è tutto un rincorrersi di “attenzione – achtung – permesso” mentre li vedi che ti evitano slalomando come d’inverno tra i paletti. Persino quel minimo di organizzazione rappresentata da una cassa computerizzata (che qualche addetto guarda ancora con malcelata diffidenza…) o dal modo cronologico di disporre le ordinazioni per rispettare il turno di ogni avventore vanno presto in crisi, basta chiedere un caffè al banco e tutto crolla.
Non sono pensati per migliaia di visitatori al giorno, questi luoghi. Non per nulla chi se lo inventò il rapporto uomo-montagna lo vedeva come una lotta (la lotta con l’alpe), un corpo a corpo che è, per antonomasia, individuale. Troppo rumore, persino gli elicotteri si intromettono su un sentiero che appare deserto.
Per questo, secondo me, è così difficile strappare un sorriso sincero, da queste parti. Spesso una certa qual gentilezza di modi fa parte del contratto turistico ma capisci quanta diffidenza (e quanta fatica) ci sia dietro. E non è, badate bene, soltanto una questione di denaro, di gentilezza in cambio di turismo. No, è qualcosa di più profondo, di più significativo.
Intanto, e lo so personalmente, è davvero pesante lavorare e far fatica dove gli altri si divertono. Al sorriso disteso del turista spensierato è difficile contrapporre altrettanto quando sudi e sbuffi per accontentarlo, per fargli godere quella spensieratezza. A volte, invece, quella spensieratezza si accompagna a cafonaggine e pretenziosità e allora è ancora più difficile.
Questa terra è troppo forte per poter essere trasparente nella vita di chi ci è nato. O se ne vanno oppure, se restano, stringono un rapporto intensissimo, e anche un po’ esclusivo, coi loro luoghi. Contemporaneamente sanno che il loro benessere deriva da queste frotte di cittadini culo-pesanti che, col fiato grosso alla prima curva, non potranno mai essere dei veri montanari. Restiamo estranei.

lunedì 9 agosto 2010

Condanne dolomitiche

Cambia continuamente il cielo di questa giornata.
Certo che c’è il sole ma il contorno bianco di nuvole e nuvole si sposta e si sfilaccia a seconda di come il vento le sospinga.
Siamo sotto la Roda di Vael (o più precisamente sotto la Torre Finestra, ché la Roda di Vael è un po’ più dietro, più bassa; da qui non si vede) ma sembra di essere in pieno centro, a Firenze: un ragazzo veneziano, appena approdato sul pianoro del rifugio omonimo, butta un’occhiata attorno e poi sconsolatamente gli cadono le braccia, “xè come piazza San Marco”. Ecco, appunto. Con la differenza che almeno non c’è la basilica...
In effetti è abbastanza un bordello: persone di tutte le età che si muovono in ogni direzione, chi sale, chi scende, chi sta a naso all’insù. Decine e centinaia di persone, perché se il mattino comincia con una seggiovia sotto il sedere (che ti fa saltare 500 metri di dislivello), va da sé quanto popolo possa esserci su per quei sentieri.
E, tra una nuvola e l'altra, ecco che spunta allo sguardo persino la Sforcella.
E’ un po’ questa la condanna perenne di questi luoghi, tra Catinaccio e Latemar, tra le cose migliori che le Dolomiti offrano: l’equilibrio impossibile tra bellezza, rispetto ed economia. Se così tanti turisti riempiono queste valli in ogni poro (pronti a riversarsi su decine di sentieri come un battaglione di solerti impiegati) forse potrebbe anche essere il segno di una consapevolezza maggiore, di un’esigenza di svago differente, di uno stile alternativo al turismo plastificato.
Ma è davvero così? O magari lo era un tempo ed oggi non più? O forse il meccanismo è identico anche dove appare differente?
Farsi una foto in un angolo caratteristico è come stare in coda al supermarket, qualcuno che grida frasi inutili dentro un cellulare c’è sempre.
E poi il benessere. C’è tanta gente agghindata con vestiti, materiali ed attrezzature a basso costo ma ce ne sono anche tanti che sfoggiano quanto di meglio la manifattura tessile asiatica sia oggi in grado di produrre per i mercati ricchi del mondo. Tessuti in fibre che dieci anni fa (ma che dico dieci? Forse anche solo cinque) non erano state ancora pensate e, mentre segui il passo di coloro che ti camminano davanti, noti le rifiniture perfette di quel cappuccio o la fantasia chiaramente ricercatissima di quella stoffa che serve solo per foderare un capo che puzza di firma anche da qui.
Insomma mi chiedo cosa c’entri il benessere con la fatica di arrampicarsi su per quei pendii, già che la fatica cerchiamo di rifuggirla in ogni modo nella nostra vita quotidiana, quella fatta di benessere, fitness, relax, health club.
Cosa ci viene in mente di gettare al vento il nostro ben bilanciato ritmo di vita bianco-occidentale-europeo, per gettarci a capofitto su (o giù) per quei viottoli dove la polvere ti mangia, dove il sudore cola giù senza chiederti permesso, dove inciampi ad ogni radice (ah già, la riconosci solo ora che è una radice… eh, non sei proprio abituato a vederne, in città)?!
In queste giornate così convulse, dove anche in quota si sta fitti come su un autobus dell’ora di punta, dov’è finita la misticheggiante retorica dei veri appassionati, quella iscritta, come su pietra, sulle riviste del settore che maledicono queste torme di maleducati e rumorosi invasori?
Anche questa passione, un tempo asperrima e selvatica (chissà perché mi torna in mente sempre e soltanto un nome, Tita Piaz…), si è oggi stemperata nel denaro che i turisti scambiano per un po’ di illusioni. Certo la bellezza dei luoghi resta, è immutabile, nessuna torma te la può portare via: basta alzare gli occhi e riempirseli coi rossi del tramonto (se le nuvole non sono troppo basse…). Ma pace e tranquillità non ci sono più, scomparse. Tradite dai negozietti che ormai vendono di tutto, dal gadget falso-etnico (e magari made in Cina esso stesso) alla carta dei sentieri, dal vino al kitsch purissimo. Tradite da quello stesso via vai che per molte famiglie vuol dire una parte importante (molto importante) di reddito annuo.
Una cosa sola, forse, può spiegare tanto accanirsi di così tante persone che, imperterrite, anno dopo anno, continuano a tornare in questi luoghi: il miraggio di un sentiero che scende verso valle nel pomeriggio. Un sentiero deserto dove nessun altro passo riecheggia. Allora ecco che torna il silenzio, solo il tuo passo batte sulla terra e la mente è libera, finalmente, di fare le proprie evoluzioni. Il vuoto, il silenzio: quello che cercavi.
Poi, mentre scendi verso valle immerso nei tuoi pensieri, sono i rumori di automobili costruite in Germania, caricate nel porto di Rotterdam e sdoganate in quello di Livorno che ti riportano alla realtà.

lunedì 2 agosto 2010

Oggi, 2 agosto 1980


Avevo quasi quattordici anni ed era mattina. Lì sulla spiaggia, la notizia della strage fu portata da una radiolina a transistor.
Per la mia famiglia Bologna era una fortezza inespugnabile, il luogo dove mio padre aveva sconfitto il cancro (una vittoria sontuosa in una famiglia semplice, di pochi mezzi) e a me capitava spesso, ancora in quegli anni, di accompagnarlo alle sue periodiche visite di controllo.
Bologna per me era un eden fatto di croissant (si sa, i ricordi sono strani, molto strani, a volte), di pane ferrarese, un lungo viaggio d'autostrada tra nebbie grigie e il mare, fin dove c'era. Bologna era una festa, una vacanza da scuola.
L'avevano colpita a morte, un po' di fascisti coperti dall'alto. Tanto in alto che ancora oggi "quel" potere, trasformatosi perché tutto resti uguale, ne ha paura. Scappa, non si fa vedere.
Eppure io mi ricordo, mi ricordo immagini confuse, mi ricordo il sangue, non so perché non vedo volti né corpi; ricordo il sangue, strisce rosso cupo, rivoli forse sulla pelle di qualcuno (una faccia...) ma non ne "vedo" i tratti. Ricordo le grida e le sirene e come rumore di automobili: stridio di freni, gomme che fischiano sull'asfalto, fumo. E grida, grida, grida... "Una bomba".
Avevo quasi quattordici anni ed era mattina. E oggi mi ricordo e ricorderò ancora e ricorderò sempre. E se la mia memoria non dovesse bastare la passerò a qualcun altro. La regalerò a chi verrà dopo.
Che duri a lungo. Che duri ancora. E poi ancora. Fino a scoperchiare i colpevoli. Quelli veri, maiali.
Bologna, 2 agosto 1980.

lunedì 26 luglio 2010

Pain parade

Dico la verità, senza falsi pudori: queste cose mi sconcertano. E non parlo della morte che è inscritta nel nostro certificato anagrafico o del dolore che, per quanto si possa fare, per fortuna è e resterà sempre invisibile e privato. Non parlo nemmeno delle responsabilità da accertare e punire perché lì arrivano (o dovrebbero arrivare) legge e giustizia.


Quello che mi sconcerta sinceramente sono le foto come questa qui accanto o come quella sulla prima pagina cartacea della Repubblica di oggi, 26 luglio. Quello che mi sconcerta è il fatto che, in pochissimo tempo, i luoghi di questi avvenimenti si trasformino in altari mediatici.
Candele, fiori e cartelli. Tutto in esposizione.
E' come se tutti noi, ormai incapaci di leggere gli eventi sociali che ci accadono e che sfuggono al nostro stesso agire, spossessati della capacità di comprendere i nostri sentimenti, conservassimo in casa già belli e pronti cartelli di dolore (sulla foto di Repubblica campeggia un cartello con su scritto "warum?", perché?). E' come se tenessimo nei cassetti le nostre urla di disperazione, pronti a tirarle fuori alla bisogna, come un abito, come un gesto, come un comportamento.
I nostri "perché", invece di essere interrogativi quotidiani, motore del nostro stare nel mondo, sembrano diventati nenie senza senso. Invece di chiederci in continuazione cosa (ci) accade, aspettiamo una morte, un disastro per trasformarli nel grande spettacolo permanente.
Così come Heysel (lo stadio di Juve-Liverpool), o come tanti altri episodi del genere, sembra di assistere ad una rievocazione storica, al ripetersi coreografico del massacro. Coi sopravvissuti che, protagonisti o vittime del meccanismo non sappiamo, tengono persino conferenze-stampa...
Così basta guardare, in alcune foto, il volto di Irina sull'orlo del pianto per capire forse meglio cosa cerchiamo e chi siamo noi altri in questi spettacoli.
Cosa significhino decine di candele e di mazzi di fiori distesi su un marciapiede: da un lato suppliscono la nostra incapacità di sentire e, prima ancora, di comprendere; dall'altro ci ripropongono ogni volta come una droga il silenzio che ci esplode dentro.
Che ci sbrana.

sabato 24 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (6)

Stamattina abbiamo fatto una cosa ignobile, quasi turpe. Una di quelle che il turista intruppato non dovrebbe nemmeno permettersi di immaginare.
Stamattina ci siamo alzati alle 5.00 e siamo andati a vedere l'alba sul mare. Poche nuvole basse sulla linea dell'orizzonte non ci hanno impedito di godere lo spettacolo della natura che si risveglia: la bassissima marea (due dita d'acqua su un isolotto di sabbia), la sabbia fresca e pettinata dalla brezza notturna, i gabbiani signori assoluti del bagnasciuga e del cielo. Tutto ciò senza pagare alcun biglietto, senza tavole sinottiche, senza gabbie o teche dentro le quali sbirciare.
Il sole che sorge.
I pargoli erano fuori di sé dall'eccitazione e raggianti di poter correre, sguazzare o saltellare in tutta libertà. Questo sentimento a loro piace tanto, ma piacerebbe da morire anche a noi adulti poterlo vivere identico ogni tanto.
Così, approfittando di una spiaggia quasi deserta, ci siamo avviati per una lunga passeggiata sulla riva. Vista da lì, la città balneare offre di sé una prospettiva inedita e decisamente interessante. Erano davvero tanti anni che non la guardavo da lì.
La pletora di alberghi, uno dietro l'altro come un esercito impettito, dispiega tutta la forza, simbolica e non, dell'industria lumpen-turistica locale. Gli imprenditori della prima fila sul mare, quelli che in anni senza vincoli hanno saputo immaginare un futuro di economia e sviluppo in un territorio fatto solo di sabbia e zanzare. Veri e propri pionieri, persino vagamente visionari: sono stati i primi ad arrivare e, come in un famoso brano del Mistero Buffo di Dario Fo (ciò a cui mi riferisco è l'ultimo minuto circa di questo video), hanno transennano, chiuso, segnato confini, "questo è mio, la sabbia è mia, il mare è mio". Ho il contratto firmato da Dio.
Lì sopra hanno costruito le loro fortune personali confondendole con quelle di un'intera comunità che all'epoca era ancora davvero un villaggio di pescatori e poco altro.
Il primo albergo costruito in zona "marina" è ancora lì, ben visibile dalla riva, e tutto sommato sempre consono nel suo stile sobrio, con quelle linee regolari. Il resto è un'infilata di fabbricati geometrili. Mattoni e alluminio, cemento e verde: più che un esercito, un'armata brancaleone della ricchezza rincorsa (e raggiunta, in alcuni casi). Se si volesse rendere visibile la parola deregulation basterebbe imbracciare una videocamera e fare una carrellata sui casermoni tutti uguali eppur completamente diversi uno dall'altro, in un'accozzaglia di stili (si fa per dire...) che rendono unico l'obbrobrio visuale della città balneare cresciuta senza senso e senza criterio che non fosse quello di una imprenditoria selvatica. L'unica linea seguita è stata quella dritta e sabbiosa della costa.
Così, lo splendido lungomare pieno di palme citato in qualsiasi guida o depliant o articolo di giornale, in Italia e all'estero, fa da contraltare alla tristezza dell'edilizia del boom. E anche di quella contemporanea che ha saputo realizzare quanto di più brutto: in lontananza si staglia un terribile fabbricato (non sono riuscito a capire cosa fosse) che ha lo stile di un laido espositore di patatine da autogrill. Solo, in formato palazzone: nel caso si trovasse a passare di qui King Kong.
Per altri versi, quello sviluppo ha avuto un suo senso di democraticità: tutti hanno avuto un pezzetto di reddito, basta guardare la spiaggia. Democristianamente, l'arenile è stato diviso in centinaia di spicchi e fettine, per accontentare quante più famiglie possibili e dare loro un accesso alla nuova industria che nasceva. Adesso, basta guardare il colore degli ombrelloni (a ogni colore, un diverso gestore) per capire che in un solo chalet, gestito da Tizio, è possibile che la spiaggia sia invece gestita da Caio o Sempronio, in un delirio di divisioni e confini. Fino a qui, è roba mia e pagate a me; di là c'è un altro a cui chiedere.
La città balneare, si sarà capito?, è quella dove sono nato e che adesso rivedo una o due volte l'anno. Certi cambiamenti quindi me li trovo davanti un po' all'improvviso e mi colpiscono. Non come chi ci abita e la vive giorno dopo giorno e a quei cambiamenti si assuefa lentamente e magari li digerisce pure. E li capisce, se anche non dovesse amarli.
A noi, ormai un po' turisti un po' cittadini per affetto, restano comunque cartoline personali. Un'alba sul mare, per esempio. O una nuotata nell'acqua limpida. Basta non guardare troppo. E non farsi tante domande...
(fine)

Ah, dimenticavo: l'albergo pionieristico fu chiamato, profeticamente (e si chiama ancora), Hotel Progresso.

L'alba sul mare

venerdì 23 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (5)

La città balneare in formato-famiglia (sì lo so che detto così sembra un pacco di biscotti ma si tratta esattamente di questo) offre occasioni deliranti che nessun paese, che so, della Corsica potrà mai darvi. Bancarelle e mercatini in ogni dove, gonfiabili e giostre, gelaterie come funghi, qualsiasi chalet contiene macchinette mangiasoldi di ogni genere. Persino i giardini pubblici dove desian giocava liberamente da bambino sono stati trasformati in un luogo di consumo: si entra (e si gioca) solo pagando. E' il progresso, bellezza!
E i dintorni, vedeste i dintorni! Dove solo pochi anni fa c'era campagna buona per passeggiare o, più semplicemente, per fare agricoltura, adesso ci sono centri commerciali decisamente inquietanti grazie ai quali la mole di traffico è diventata quella di una grande città: ingorghi spesso e volentieri, lunghi serpentoni di metallo che (non) si muovono tutti nelle stesse direttrici. Il commercio.
E non contenti, gli amministratori locali, sono pronti ad autorizzare nuovi insediamenti iper-commerciali. Viva il progresso...
Insomma, dopo il mare e il sole, la sabbia e l'ombrellone (vecchie merci vendute ormai da decenni sempre uguali e che evidentemente non bastano più: perché accontentarsi di una nuotata o un bagno di sole, dimenticando il consumo almeno in vacanza?), l'unico sviluppo possibile di luoghi come questo sembrano essere le merci. Il famigerato marketing del territorio, che finirà di distruggerlo il nostro territorio, qui non si coniuga con rispetto per l'ambiente o con servizi ai turisti o con sviluppo ecocompatibile (vogliamo fare un paragone col Trentino - Alto Adige?!) ma con il commercio a breve termine. Perché il turista è spesso l'unica risorsa e va spremuta bene, fino in fondo.
Insomma, luci del varietà accese per le poche settimane di alta stagione, sagre gastronomiche che spesso ammanniscono pessimo cibo fritto in residui della lavorazione petrolifera, frizzi e lazzi ad uso e consumo di una festa che appare sempre più fasulla. Gran confusione sotto il cielo ma in fondo la città balneare non sa essere altro che il riflesso dell'intero Paese: un baraccone che, va detto, piace a molti e li rende soddisfatti. Cosa chiedere di più?... E se invece imparassimo a chiedere di meno?
(continua...)

giovedì 22 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (4)

Come chiunque abbia lavorato nel lumpen-tourismus (ossia quello dell'ipersfruttamento a conduzione familiare) sa perfettamente, ad ogni boss-dotato-di-sigaro corrisponde invariabilmente una figura mitologica, la vera padrona, quella che manda avanti sul serio la baracca.
Di solito è il boss che grida, vocia e si sbraccia a destra e a manca, ma chi decide e comanda è “sua moglie”.
Nel momento di massimo pathos lavorativo, statene certi, sentirete alzarsi imperiosa la voce del boss che ce l'ha con qualcuno, che impreca contro il mondo creato, che sbuffa fumo dalle narici come fosse un vaporetto.
“Sua moglie” lo guarda in silenzio poi si gira verso di voi, turista-avventore, e vi fa l'occhiolino e un mezzo sorriso. Non sta dicendo “va tutto bene, fidatevi di me”, no.
Sta dicendo “appena si cheta, e voi vi siete spostati dalla visuale, gli cavo l'occhio; questo”. Vi ha semplicemente mostrato in anteprima quale dei due bulbi sacrificherà.
Nel dialetto ancestrale della città balneare, anzi del suo entroterra, esiste un termine un po' forte che però specifica bene di cosa stiamo parlando: la vergara. Mutuata dal vocabolo maschile e traslata di decennio in decennio al femminile, questa parola indica proprio l'antica funzione della società matriarcale: la donna che comanda, il capo indiscusso della comunità contadina.
Ecco, la moglie del capo, nel lumpen-tourismus, è colei che ha in mano tutte, e dico tutte, le leve del potere: in primis, è colei che gestisce il denaro e i rapporti con le banche. A cascata, si capisce, gestisce il resto: i dipendenti, lo spazio, il tempo, le mansioni. Unica eccezione sono i lavori di fatica che sono, munificamente va detto, elargiti agli uomini. Ma anche qui, eccezione dell'eccezione, si son viste vergare ben piantate entrare in una cella frigorifera ed uscirne con un quarto di bue a tracolla come fosse una borsetta di Gucci.
Così, l'altra sera, prima di rientrare a cena, la profe e desian si sono fatti venire la splendida idea di concedersi un semplice aperitivo, un analcolico e qualche nocciolina, niente di più. Lo spazio più adatto a questo scopo, un angolo appartato e fuori mano dello chalet, era stato agghindato per una cena di compleanno e non era quindi disponibile. Non volendo rinunciare, abbiamo ripiegato sul salottino/ingresso dello chalet medesimo. Con un attimo di ritardo, quando ormai ci eravamo seduti, ci siamo accorti che quello spazio doveva essere velocemente pulito e rassettato per accogliere quelli che, di lì a poco, sarebbero arrivati per cenare (ogni chalet che si rispetti è quasi sempre anche ristorante-sul-mare).
La moglie del boss non si è invece distratta: con una certa classe (sic!), malcelata dietro una pettinatura ormai arrivata allo stremo (dopo “una giornata al mare”, come si è schernita lei stessa), ci ha dolcemente redarguito. “Mi raccomando, fate presto: dobbiamo pulire e abbiamo pochissimi minuti prima che arrivino per cena”.
Ora, vabbé che l'aperitivo non è un'impresa titanica ma almeno due sorsi lasciateceli fare.
Dall'altro lato del campo di battaglia, il boss si è reso conto dell'incidente di percorso ed ha, come il ruolo impone, cominciato ad inveire contro “sua moglie”. La quale non ha fatto una piega: lo ha guardato bonaria poi si è girata verso di noi, ancora più dolce di poco prima, e ha spiegato: “eh già, mica lo pulisce lui il pavimento”.
Non abbiamo fatto in tempo ad alzarci per riprendere la via di casa che il vecchietto male in arnese (quello che perennemente lotta con la sabbia sul pavimento di cemento) ha tirato fuori il mocio dal suo secchio-strizzatore ed ha avuto la giusta soddisfazione: continuare a dare il cencio. Ancora e ancora.
Per l'eternità.
La moglie del boss, da lontano, gongolava soddisfatta.
(continua...)

mercoledì 21 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (3)

Allora, ricorderete: il nostro Big Jim, dopo aver consultato il suo oracolo-mappa, si offre di accompagnarci all'ombrellone. Fatti tre passi, ce lo indica: "è quello laggiù".
Immagino che tutti abbiate presente una selva di ombrelloni distesi su una spiaggia. Fitti come un bosco di larici fitti. "Quello laggiù" può essere uno qualunque.
Pazienti ci avviamo finalmente sulla rena, scartiamo un paio di signore incartapecorite dalla tintarella e, finalmente, l'uomo piccolo riesce ad adocchiare il "civico" 177: siamo arrivati, il viaggio finisce qui. Ci installiamo. Questa sarà la nostra casa, nei prosimi giorni.
Forse.
Dico forse perché il giorno dopo (intanto io ero ripartito) la profe mi chiama al telefono: "sai, il nostro caro 177? Beh, stamattina ci ho trovato installata una signora"!
"Una signora chi"?!
"Eh sì, c'era una che sosteneva che il 177 era ed è sempre stato suo".
Insomma Big Jim, pur dopo aver letto l'oracolo-mappa, si era miseramente sbagliato. Non so se avesse sbagliato riga, colonna o direttamente linguaggio, fatto sta che il 177 risultava già occupato.
Panico, pensava la profe, e ora che succede?
Impietosito da donna-sola-con-due-pargoli, il nostro tenero Big Jim pare si sia perso in un bicchier d'acqua (al mare...) e abbia chiamato in soccorso niente meno che il boss. Un paio di urlacci, un breve consulto e la situazione si risolve con un trasloco nella stessa via, a pochi metri di distanza, "civico" 172.
Stavolta pare quello giusto.
"C'è solo un problema" mi rassicura via etere la profe "da qui dietro, in questa selva di ombrelloni, sdraio e lettini, il bagnasciuga è un orizzonte lontano! Mi vedo già in versione truppe cammellate fare avanti e indietro". Non c'è che dire: il vantaggio di non essere raccomandati...
Le prime file spettano, per diritto matrilineare, ai vip locali non certo ai turisti sprovveduti. E sia.
Il nostro spicchio di spiaggia è ormai conquistato.
Spicchio, parola quanto mai evocativa: la distanza tra un ombrellone e l'altro è misurabile in carta millimetrata. Non dico provare a girare il lettino, o stendere un telo, ma soltanto muovere un braccio significa infilarlo nell'occhio del vicino. A non più di quaranta centimetri da te. E voglio essere magnanimo.
In definitiva, il comfort massimo si rivela essere l'immobilità assoluta. Salire o scendere dal lettino richiede una certa perizia, un continuo ammiccare "mi scusi, permesso". In alternativa un "ops, non volevo" quando col piede riempi di sabbia il vicino.
Un paradiso.
Le palme stormiscono alla brezza, il sole fa il suo mestiere (scotta) e il turista-fantozzi sta pigiato come in una coda autostradale: muoversi a singhiozzo e occhio a non tamponare.
Sia chiaro, gentilissimo turista che arrivi: noi di spiaggia abbiamo tot metri quadri, voi siete molti di più (c'è crisi ma aumentate in continuazione, di anno in anno) e noi dove vi mettiamo? Pochi ombrelloni ben distanziati sarebbero "troppo" pochi. Quindi non rompere: goditi il sole, il mare (piuttosto pulito, va detto) e la pace marina.
Tutto ciò non sta scritto su un cartello affisso all'ingresso ma nell'espressione serafica del boss (e di sua moglie): la pace e il relax, dice lui.
Peccato che a partire dalle 10.00, un delirante servizio di pubblicità a mezzo altoparlante spezzi l'incanto e ti rompa i.
Timpani, avevo detto timpani.
Se non è civiltà questa!
(continua...)

martedì 20 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (2)

Domenica mattina, mentre ti avvicini all'ingresso dello stabilimento balneare (a proposito, nella città balneare gli stabilimenti vengono comunemente chiamati chalet. Per brevità, d'ora in poi, li chiameremo così), ti rendi conto che il tuo fine settimana al mare deve ancora cominciare ma, nello stesso tempo, sta già per finire.
Domenica sera ripartirai perché se è vero che profe e pargoli resteranno a godersi la loro meritata vacanza nel dolce verde marino, è altrettanto vero che tu sei ancora nel pieno del marasma lavorativo. E lunedì mattina ti aspettano, si fa per dire, in ufficio.
Che poi camminando sul marciapiede che ti porta allo chalet ti rendi conto (ma di questo avrai consapevolezza soltanto molto tempo dopo, quando sarai già rientrato in città e starai scrivendo questo post) che si tratta del medesimo marciapiede dove più di trent'anni fa accadeva questo e capisci, come dice la tua amica letterata, che le trame esistono, non sono soltanto l'invenzione di un qualche sceneggiatore ma che accadono nella realtà. Esse sono.
Insomma, arrivi ed entri. Lo chalet, a dispetto del nome in minore, è una specie di reggia e l'entropia regna sovrana. Quando individui una specie di reception ("sì, dev'essere lui il boss, fuma il sigaro!") ti avvicini e ti presenti. Abbiamo prenotato, per due settimane, sì ombrellone e due lettini, ecc.
Il boss ti guarda, interrogativo (e continuerà a tenere lo stesso sguardo ogni volta che gli ti parerai davanti le volte successive quindi: o non capisce cosa io voglia da lui, o sono trasparente e quindi è spaventato dalla mia voce che viene dal nulla, o cerca qualcosa nella sua memoria e non lo trova), poi riprende coscienza e grida un nome.
Attenzione adesso, focalizzate la situazione!
Gente vociante che si muove in ogni direzione, bambini e suppellettili che si intersecano, baristi che girano come trottole, familiari del boss. Malgrado siamo ancora sul cemento, la sabbia scricchiola sotto le tue infradito. Si sente strusciare: un vecchietto piuttosto male in arnese sta dando il cencio in terra cercando di aver ragione di tutta quella sabbia. Ogni altra volta che lo vedrò, d'ora in avanti, starà sempre facendo la stessa frenetica azione: un vero specializzato.
In questa nuvola di caos, pian piano dei contorni si fanno nitidi; si staglia una figura che avanza, fendendo tutto: sabbia, bambini, poltroncine.
Ti trovi di fronte un Big Jim in versione carne ed ossa. Lo stesso colore bronzeo della cute ma molto molto molto più muscoloso: egli è l'equivalente dell'arca di Noè per steroidi, anabolizzanti, ormone della crescita. Li contiene tutti, di ogni tipologia presente sulla Terra, come se dovesse salvare quelli dal diluvio invece degli animali.
A ben guardare, c'è qualcosa che stona. Anzi due.
La prima è una testolina piccola piccola in cima al suo collo diametro 64. La seconda è che... sembra non avere indosso nemmeno il costume da bagno. Orrore...
Se poi guardi bene, fiuuuu!, ti accorgi che ce l'ha però è rimasto nascosto nelle pieghe dei muscoli, tra la tartaruga addominale e i quadricipiti femorali.
Big Jim ti guarda, interrogativo (ma cos'è, un'abitudine della casa?!), poi riprende coscienza e guarda il boss che, a sua volta, prova a chiarirgli chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo.
Big Jim ha un guizzo, l'unico, negli occhi. Forse ha capito qualcosa. Estrae da sotto l'ascella (nuda) una specie di libro mastro il cui formato, giuro!, è di un metro per sessanta centimetri e lo apre con voluttà. Lo consulta come se si trovasse di fronte il libro delle profezie di Ezechiele.
In realtà, il voluminoso volume altro non è che una piantina della spiaggia con gli ombrelloni, disposti regolarissimamente in file di otto. Individuato il nostro posto (siamo al 177) quasi sorride e ci rassicura: "vi accompagno". Fa tre passi verso la spiaggia (ho detto tre) e solleva un braccio: "è quello là".
In quel momento incrocio il suo sguardo. Come ve lo immaginate voi lo sguardo di un siffatto Big Jim? Truce? Di superiorità? Sprezzante? Aggressivo? No, niente di tutto questo. Lo sguardo del nostro Big Jim ti dice una cosa e una soltanto: "voglimi bene almeno tu, oh turista sconosciuto" (e anche gli errori di grammatica sono inscritti entro i confini delle sue pupille), poi abbassa lo sguardo, si gira sui talloni e se ne va.
Allora mi chiedo: "Chi? Chi ha potuto non voler bene al nostro caro Big Jim tenerone, in vita sua? Chi è potuto essere tanto crudele"?
Chi lo ha ridotto così?
(continua...)

sabato 17 luglio 2010

Una cosa delirante che faremo ancora (1)

Le premesse sono due, la prima brevissima: ebbene sì, sto leggendo "Una cosa divertente che non farò mai più" di David Foster Wallace e lo trovo geniale.
La seconda è un po' più articolata ma necessaria.
Le nostre vacanze al mare sono, di default, su spiagge libere, quelle senza stabilimenti balneari, senza assistenza per le famigliuole vogliose di relax (a che prezzo, il relax! Costa decisamente più dello stress). Potendo scegliere, come negli anni passati, dislocate oltretutto nel mese di giugno.
Corsica, Sardegna o Costa degli Infreschi, abbiamo scelto spiagge lontane, a volte anche raggiungibili previa non brevissima scarpinata (l'anno scorso a Scario, per arrivare, ci facevamo anche una stupenda mezz'oretta di barca) con addosso tutti i nostri fagotti, giochi, ombrellone, pranzo al sacco.
Insomma, siamo decisamente fuori da qualsiasi ricerca di marketing che vuole le famigliole italiane con pargoli tutte votate alla spiaggia full-optioned praticamente dentro il salotto, con ombrelloni, bagnino muscoloso, bar-ristorante-toilette-ricovero-pizzeria-discoteca-piscina-baby parcheggio-infermeria-ecc.
Abbiamo scelto la libertà di fare mare senza (necessariamente) essere degli intruppati. In luoghi straordinariamente belli. (Mi pare sia arrivato anche il momento di precisare che non siamo martiri-della-vacanza-fai-da-te ma anzi ci siamo concessi tutto lo sbraco necessario).
E siamo stati benissimo: in compagnia, rilassati, senza pensieri.
Quest'anno invece, per motivi logistici e organizzativi differenti, la cosa migliore ci è sembrata affidarci al famigerato stabilimento balneare per famigliuole.
L'ho dichiarato già nel titolo, lo "faremo ancora", quindi nessuna preclusione e nessuno snobismo.
Una cosa delirante che vale la pena raccontare.
(continua...)

lunedì 12 luglio 2010

Ping pong

L'uomo piccolo, al telefono.
Dal mare.
- Babbo, babbo, stiamo giocando a ping pong. Però senza rete...
- E come fate?!
- Eh, abbiamo cominciato che la pallina rotolava. Poi abbiamo fatto qualche saltello piccolo. Ancora non siamo arrivati ai saltelli grandi da professionisti. Ora stiamo provando altri saltelli. Ah!, non ti offendere ma stiamo giocando con le tue racchette, di quando eri piccolo.
- Mmmh, ho capito e vi divertite? Stai imparando?
- Sì. Vabbè resta al telefono, devo andare di là a giocare. Ti saluto.

Ti saluto?!
Una volta si diceva "ciao babbo, mi manchi tanto, quando torni"?
Adesso "ti saluto".
Ho capito, passami la mamma, penso.

Ti saluto...
Ti saluto a chi?!

sabato 10 luglio 2010

Ieri silenzio...

...e oggi il ducetto ha ricominciato a dire bestialità.
Qui, l'articolo di Repubblica (ma avete visto che espressione ha in quella foto?!).

Dice, il ducetto, che la libertà di stampa non è un diritto assoluto.

Evidentemente non ha mai letto la nostra Costituzione.
Evidentemente non conosce la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo.
Evidentemente non ha mai sentito parlare di Rivoluzione Francese, Illuminismo.
Evidentemente... ma dove diavolo ha studiato?!
Ma, la conosce la Storia?

martedì 6 luglio 2010

Depenalizzazioni

L'estate è così, cambia le prospettive. Senza scuola i pargoli si sentono più liberi, senza scuola gli adulti hanno meno fretta.
Le chiacchiere si rincorrono tra i muri freschi e il caldo, fuori, è solo un lontano ricordo. Il verde ci accalappia, rotolandosi nell'erba, e ci stringe il cuore. Si ride.
Le regole si allentano come una cintura troppo stretta in vita. Si respira. E sembra più naturale rispettarle, quel poco.
Si corre, in bici o sui pattini inseguendo un proprio pensiero, che sia un desiderio di divertimento o un esercizio per migliorare. A volte, mentre scherziamo, ci sembra tutto più semplice. Regole, comportamenti, sfottò. Così l'altro giorno ci siamo lasciati andare.
Abbiamo derogato, mollato la briglia.
Così avremo un intercalare, innocuo, in più.
Siamo un po' meno formali.
...abbiamo depenalizzato il "che palle"!

venerdì 2 luglio 2010

Al fresco (l'importante è partecipare...)

Non è schizofrenia, se vi ricordate il post di ieri. L'estate è fatta di questi estremi: tra la calura diurna e il fresco delle colline, la sera. E' per cercare un po' di tregua che ci si arrampica verso l'alto, su un nastro d'asfalto che presto lascia il calderone della città per incontrare vigneti, coloniche che ti guardano da sopra, ville medicee e oliveti. Campagna.
Poi, d'improvviso, il bosco e tutto, ancora, cambia. La temperatura si fa dolce e sopportabile, l'umidità non è più appiccicosa di ossido di carbonio ma profuma di foglie ed erba.
Ci si distende: verso la tavolata già pronta, verso il tramonto fantastico, verso il prato. E il campetto di calcio. Due porte ed un pallone fanno la nostra gioia, dei pargoli e "di" pargoli. Anche desian sgambetta. E suda.
Poi chiacchiere rilassate e cibo.
E anche dietro la serata più innocua si nasconde qualche risorsa, se sono dei bambini che ti guidano. Perché a un certo punto ecco saltar fuori una squadra di cinque ragazzini, grandicelli. Cominciano guardandoti da lontano, mentre sgambetti tra i tuoi piccoli. Poi si fanno avanti: vogliamo giocare anche noi, vogliamo.
Giochiamo.
I ragazzini son ganzi, chiaramente semi-professionisti per l'età che hanno. Ce le danno di santa ragione e i pargoli, tutti e cinque quelli che ho attorno, non sanno più che pesci pigliare: la palla nemmeno la vedono più. Sono gol su gol, che subiamo.
Qualcuno comincia ad essere disperato (e piangerà tutta la sera, ben dopo la fine della partita), qualcun altro implora che l'adulto, io, prenda in mano la situazione e annichilisca gli avversari.
Avversari che peraltro sparano parolacce come fossero complimenti, millantano di "spezzare le gambe" e accampano mille scuse non appena perdono il pallone.
Insomma, ragazzini ben educati, pronti per una vita adulta da furbacchioni, da prepotenti. Vogliamo giocare, perché noi vinciamo.
Per fortuna, tra i pargoli c'è un piccolo saggio: "l'importante non è vincere ma divertirsi, giocare e imparare" cercava di consolare i suoi compagni. Inconsolabili, alcuni.
E, mi chiedo, piccoli lord educati a valori diversi e quindi perdenti?

giovedì 1 luglio 2010

Solleone

La scuola è finita da un pezzo ma noi siamo ancora qui, nell'asfalto urbano, sotto un sole ruggente. In attesa delle agognate vacanze (chi prima, chi dopo), i pargoli stanno frequentando i centri estivi.
Passano le loro giornate tra il giardino e i giochi, tra canzoni (che sanno a memoria già il secondo giorno e cantano a squarciagola in ogni momento anche a casa) e gite nel circondario. Fanno nuove amicizie (che magari durano appena lo spazio di due settimane ma che senti vive nei loro racconti), vestono in maglietta e pantaloncini. I sandali sdruciti.
Sembrano bambini di un'epoca remota e contadina, quando la sera la stanchezza li abbrancava e, in un vortice da mago di Oz, li stendeva implacabile nel sonno. Adesso, la sera, crollano addormentati sul divano. Consumati da una stanchezza felice, liquefatti dal loro essere bambini.
E ti viene da pensare che quando erano a scuola arrivavano a sera in modo diverso, anche la stanchezza era un'altra cosa: una tensione, un nervosismo capriccioso. Uno stress.
Così ti dici che la nostra vita, di tutti, organizzata come la conosciamo (scuola-lavoro-casa-mezz'ora di giardinetto di quartiere-compiti-far da mangiare) sembra una follia. Ci consuma ma non ci soddisfa.
Così ti chiedi che bambini sono quelli che alleviamo in certi miti odierni, che adulti saranno (e siamo) da sempre avviati ad un'esistenza fatta di impegni, responsabilità, competizione, ansia da prestazione.
A sei anni, a sette o dieci, l'unica ansia da prestazione che li rende felici e pieni è questa: la stanchezza di una giornata all'aperto, la libertà del gioco. La responsabilità di essere bambini.
Se sapessimo portare con noi, nel nostro viaggio esistenziale, un po' di queste emozioni estive, forse saremmo adulti migliori. Bambini migliori, sicuramente. Chissà.

sabato 26 giugno 2010

Gli accessori del babbo (18): il filo

E' un lungo filo quello che ognuno di noi tesse, come ragni.
Che a ripercorrerlo ci porta in tanti luoghi diversi, a tante persone. Oppure ci lega direttamente ad una memoria, uno ieri.
Inizio anni '70.
Il mio dente da latte dondolava ma non voleva saperne di venir via. Avevo una qualche paura, il sangue.
Mio padre prese un pezzo di filo. Non so come lo legò al mio dente, non so come diede un piccolo strattone. Non so come, il dente saltò via, legato a quel filo.
Inizio anni '10. Del Duemila.
L'uomo piccolo ha un dente da latte che dondola ma non vuole saperne di venir via. Ha una qualche paura, "il sangue, babbo".
Ho provato a prenderlo con le dita ma è piccolo, umido e quindi scivoloso. Sfugge alla presa. E lui resta lì, dondolante e torto.
Sono disarmato. Sto fallendo e l'uomo piccolo è più confuso di me.
Attende.
C'è quel filo, da qualche parte nel nostro cervello, che lega altri fili e torna dove tornano i fili: ad allacciarsi, a tessere insieme le memorie. Un ordito di ricordi.
Se lo raccogli, un filo diventa un gomitolo e, nodo dopo nodo, arriva.
Così ho ricordato mio padre e quello che fece. Ho preso un filo, blu. Gli ho fatto un piccolo cappio. L'ho infilato sul dentino e ho stretto.
L'uomo piccolo e io ci siam guardati negli occhi. Dentro. Ho sorriso con lo sguardo: "tranquillo" dicevano i miei.
"Tranquillo, sì" dicevano i suoi.
Mezzo secondo, cinque decimi possono essere eterni.
Mezzo secondo e indice e pollice sono scattati.
Senza alcuna resistenza il dentino è saltato. Senza alcuna resistenza l'uomo piccolo ha sgranato gli occhi come lune.
E' corso via, per guardarsi allo specchio e quando è tornato era trionfante: "babbo non c'è nemmeno una gocciolina di sangue". Eh.
I fili si tendono e si mollano. I fili ci legano. I fili ci portano assieme.
E non sanguinano mai.
E la Storia non va mai da sola.

venerdì 18 giugno 2010

Al tramonto, dopo la pioggia

Il caos di città invivibile. Orde di turisti in ogni dove.
La volgarità vernacolare. E lo smog, che respiriamo ogni giorno. Le sue tante ritrosie.
E le chiusure, se "non sei dei nostri".
Poi, piove.
E all'improvviso si lava una sua nuova verginità, tersa ed assoluta. Si apre e ti offre la sua anima.
Soltanto per una sera, magari, ma ce la godiamo volentieri...



Insieme a splendida musica. Che migliora, concerto dopo concerto. Come un vino che ami.
Et voilà...

mercoledì 16 giugno 2010

Crescere è allontanarsi?

E' la solita, banale, altalena della vita.
I pargoli che crescono si avvicinano a te, un passettino dopo l'altro verso l'età adulta, oppure se ne vanno verso un'altra direzione?
Un po' avanti, un po' indietro. Basta darsi la spinta con le reni e le gambe.
Mentre il mondo ti cigola sotto.
E le distanze prendono prospettive insolite. Come questa.

Una domenica in campagna, a casa di amici che arrampicano, anche la donna grande trova il suo coraggio e si offre entusiasta per salire quella parete (io non ne capisco molto ma gli esperti mi dicono che può essere paragonata ad una 6B, una cosa tosta. Ma tosta).
Naturalmente la donna grande ha avuto gli aiuti del caso: la corda e l'imbragatura sono servite più da carrucola che da sicurezza. Ma tant'è, la donna grande è finita lassù, sul tetto. Di casa, per ora, ma un tetto per quanto modesto ha sempre il suo valore simbolico.
In cima, come distanza.
E insomma ho vissuto questa strana sensazione: la vedevo salire, allontanarsi, mentre la carrucolavano su e mi sembrava il suo posto. Mi sembrava la sua aria con quelle gamberelle secche che zampettavano un po' il vuoto un po' il muro, in cerca di appiglio.
Un appiglio per sè, un appiglio per una spinta, un appiglio verso l'appiglio successivo.
Perché il ciclo mi pare questo, a voler interpretare ciò che è chiaro: un lassù è come un trampolino. L'altalena dondola, il mondo ti cigola sotto e loro decollano, decollano sempre.

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