venerdì 31 luglio 2009

Il mare, d'estate

D'inverno il mare è una presenza molto forte: chi lo pensa esclusivamente come il proprio ricovero vacanziero estivo non ha mai forse visto lo spettacolo immenso e regale di una libecciata. Non ha avuto modo di vedere certi colori, certe luci cangianti che ne spezzano l'immensa superficie per farne tanti laghi, uno accanto all'altro.
La spiaggia che, dopo un temporale, rigurgita di ricchezze portate a riva, di legni contorti, di conchiglie, di vita bagnata.
Il mare d'inverno...

Il mare, d'estate, che sono tornato ad adorare dopo anni di indifferenza, mi fa capire quanto siamo umanamente stronzi, quanta capacità abbiamo di lasciare tracce sudicie dietro di noi. Ognuno di noi.
La quantità di mozziconi di sigarette che si trovano sulla sabbia è inenarrabile, molte molte di più che nel posacenere di una sala pre-parto (anche perché fortunatamente negli ospedali non si fuma più da anni...): liberi dai vestiti, sotto il sole o sotto l'ombrellone, con un libro, un giornale o un sonnellino, i fumatori devono fumare anche lì. Ma soprattutto devono gettare il mozzicone lì, sulla sabbia, col filtro che spunta fuori come una pietra miliare.
La pietra miliare della stronzaggine.
E cosa dire del bicchiere di plastica che ho visto spuntare stasera da sotto uno scoglio?!
Come ci è finito?
Chi ha sollevato lo scoglio per incastrarcelo sotto!?!
Maiali?

Eppure le spiagge sono dotate di contenitori per la spazzatura: ma volete mettere la fatica di alzarsi dal dolce fancazzo e arrivare fin là, facendo quattordici, sedici o venti passi? Ma no, meglio buttare tutto lì, sotto la sabbia che nemmeno si vede. Almeno fino a quando non si alza la brezza e la sabbia disvela il bel sacchetto di plastica, sotterrato appena stamattina.
Il mare, d'estate.
Che bello...

lunedì 27 luglio 2009

Gli accessori del babbo (4): Osvaldo Soriano


La prima volta lo incontrai una calda mattina di agosto. Era il 1993. In una vecchia edizione dei tascabili Einaudi, quella grigia con una foto in alto e sotto il nome dell'autore e il titolo: Triste, solitario y final si chiamava il romanzo, collana Tascabili numero 62.
E' ancora lì, il libriccino, al posto che gli spetta di diritto. Vicino al cuore di un ventisettenne. Allora.

Da quel giorno Osvaldo Soriano l'ho letto tutto, e riletto, l'ho rincorso in vecchie edizioni e bancarelle (perché oggi è una star ma allora non si trovava ancora molto), l'ho assaporato in storie che non conoscevo e che adesso ricordo come se le avessi vissute personalmente. Spesso alcuni suoi titoli mi frullano ancora in testa come scioglilingua della memoria (una sombra ya pronto serás), a volte si confondono nel delirio delle edizioni-clone e delle scelte editoriali: lo stesso libro pubblicato con titoli diversi perché il lettore inciampi magari in un solo nuovo brano, a fronte delle centinaia di pagine che già conosceva. Il lettore.

Soriano era onesto: raccontava di gente che non c'era più, di storie morte sepolte a volte neppure accadute (o soltanto immaginate dalle fonti della realtà), eppure era vero, reale, verosimile. I suoi Stanlio e Ollio, accompagnati da Chandler o John Wayne redivivi, erano il vero di noi tanti lettori. E i pensieri di Obdulio Varela, centromediano uruguayano, "ragazzone tagliato con l'accetta", raccolti nel corso di una lunga intervista davanti ad un registratore, poteva estrarli solo lui.
Farne un racconto.
Farne un pezzo di mito: quello del calciatore che, senza segnare, sconfisse il Brasile nella finale mondiale del 16 luglio 1950. Io ovviamente non potevo esserci, ma come dimenticare i centocinquantamila brasiliani annichiliti, a fine partita, in quel Maracanà dove l'Uruguay festeggiava il suo secondo titolo mondiale?!
Mentre il Brasile era ancora a bocca asciutta. Poi sappiamo come andò la storia, ma Soriano e, con lui, Varela restano nella cassetta degli attrezzi. Nel kit della memoria.

Ecco un grande scrittore. Che parla di calcio, che parla di cinema, di miti fragili ma immortali. Uno dei più grandi. A suo modo, nel nostro tempo.

Per questo post non posso che ringraziare giardigno, qui.

sabato 25 luglio 2009

Gli accessori del babbo (3): il vano portabagagli

Sì, viaggiare.
Superando le prove più dure.
Che sarebbero, in primo luogo, almeno partire.
Ma, prima ancora, caricare i bagagli in macchina.

Per lungo tempo, il vano portabagagli non ha avuto per il sottoscritto la dignità di uno spazio a cui far riferimento. Mai - sottolineo: MAI - avrei pensato di dover ponderare l'acquisto di un'automobile sondando i cm3 del bagagliaio. Decine di riviste e di listini messi a confronto su un unico immodificabile parametro: la capienza. Che all'inizio, vedendola riportata in litri su alcuni testi, mi tornava in mente il biberon e i centilitri di latte caldo (con biscotti...). Che poi solo guardare il numero, 1436 litri (ma coi sedili posteriori abbattuti), c'era di che sobbalzare: "accidenti, ma cos'è, la centrale del latte?!".

Inoltre, in quest'epoca di consumismo (mal) represso, il babbo consuma anche decine di suole di scarpe su e giù per le scale (perché le mamme a dir il vero si occupano di farle le valigie - provi ad alzare la mano chi non si riconosce; i babbi le trasportano) con valigie, buste, zaini (termici e non), sacche, reti da infilare laggiù nell'antro. Il bagagliaio.

Sarà il periodo di prepartenza ma ricordo con orrore i primi bagagliai riempiti, coi pargoli neonati. La monovolume, rigorosamente scelta in base alla maggiore capienza di ogni categoria, era carica fino al tetto. Il castello di equilibri era studiato nel minimo particolare, ogni oggetto incastrava alla perfezione con quello sotto, quello accanto e quello sopra.
Il segreto, per cotanta perfezione formale, era estrarre l'aria per non lasciare spazi inutilizzati alle merci. E senza compressore...

Il catalogo, all'epoca, era infinito: tolto l'abbigliamento, avevamo il riduttore per il wc, la vaschettina in plastica per il bagnetto con annessi gli oggetti DA bagno, le creme, i pannolini, le salviettine imbevute.
E il lettino da campeggio col materasso (di lattice) per il sonno notturno, i gonfiabili per la spiaggia oppure le scarpe da trekking per la montagna, la sdraietta per i momenti di riposo da svegli. Il set di cambio veloce da viaggio. Generi di conforto per il viaggio (sufficienti a legioni di soldati affamati).
L'acme della follia si raggiungeva però in una teoria inconfutabile: "portiamoci anche un paio di borse vuote: potrebbero sempre servirci, se dovessimo comprare qualcosa quando siamo là"...
Immancabilmente il castello era sormontato dal suo tetto: il passeggino sopra tutto il resto. E il lunotto posteriore sembrava scoppiare.
Ah, lo specchietto retrovisore avrei potuto anche smontarlo, per quel che riuscivo a vedere.

Eppure, prima o poi, la normalità ritorna: quando finalmente riuscirete a tornare col carico entro il livello della cappelliera. E buone vacanze, eh.

mercoledì 22 luglio 2009

Contromano

Mi è capitato spesso di parlare con babbi più grandi di me, diciamo over 50.
Mi è capitato quasi sempre di ascoltare come il loro più grande cruccio sia quello di non aver dedicato abbastanza tempo ai loro figli. Quando quelli erano piccoli. Quando forse ci sarebbe stato (molto) bisogno di loro, per crescerli.
Se non un vero e proprio senso di colpa, almeno un rimpianto.
L'idea concreta e certa di un tempo perduto. Per sé, per i figli.

L'altro giorno, invece, durante una festa ai centri estivi, mi è capitato accanto un babbo. La mia età. Squilla il cellulare, suo.
Risponde, il babbo coetaneo, e risponde contromano: "No, scusa ma ora sono impegnato con la mia bambina. Ti richiamo dopo".
Il cellulare è tornato nella tasca (era una telefonata di lavoro?...), il babbo è tornato a cantare e battere le mani a ritmo (eh sì, eravamo al momento della canzoncina).

Finalmente una trasparenza: il telefono può aspettare, c'è mia figlia qui.
Ho ripensato a quella telefonata, ho sentito quella nuova responsabilità che probabilmente i babbi over 50 non hanno avuto il coraggio di cogliere. Ho apprezzato, anche per me che faccio difficoltà a mescolare lavoro e vita, la trasparenza: "sono impegnato con mia figlia"; la mia vita è questa qui.
Anche.
O soprattutto.

Non so che babbi siamo e come potremo essere giudicati dai nostri pargoli domani. Poi ragazzini e quindi adolescenti. E poi.
Intanto, mi pare, abbiamo preso coraggio: oggi abbiamo preso a camminare contromano.

lunedì 13 luglio 2009

Gli accessori del babbo (2): la bicicletta

Primavera 1972, il lungomare di una città, di mare. C'è un bambino in sella alla sua bicicletta: è la prima volta senza rotelle, forse la seconda. Chissà.
C'è anche suo padre: oggi è lui che l'ha portato fuori perché la mamma era troppo stanca, reduce da pochi giorni dal suo terzo parto. Il babbo tiene la bicicletta da dietro, all'altezza del minuscolo porta pacchi. E' chinato, la bici è piccina, lui è un uomo alto. Massiccio.

Il bambino ha paura, vuole imparare certo (molti suoi amici sanno già andarci, senza rotelle), ma non è facile riuscire a farlo. Così, di colpo. Il babbo promette "non ti lascerò andare. Tu pedala come puoi, col tuo ritmo, e poi aumenti, sempre un po’ più veloce. Io ti reggo".

Partono. Il bambino pedala e il babbo dietro, chinato. Dopo tre giri di pedale, il bambino si ferma, strusciando i piedi per terra, come se fossero i freni. Sembra stanco ma è soltanto ancora troppo timoroso. "Babbo, come sono andato?".

"Bravo. Ora proviamo di nuovo. Sei pronto?... Via!".
Riprovano. Tutti e due. Il bambino che pedala, il babbo chinato che lo sostiene…
…o lo rincorre, adesso?
Il bambino sulla bici ha una sensazione strana, mai provata, come di vertigine. Poi, però, non so come fu, riuscii un attimo a girarmi e mio padre non c'era più, lì dietro. Mi aveva lasciato andare, mollato. Io andavo, andavo senza rotelle. Pedalavo da solo.
Potrei vivere mille anni, sempre ricorderò quel giorno in cui il mio cuore scoppiò.
Di gioia.
Di entusiasmo.
Stavo andando in bici senza rotelle. Da solo. Finalmente avevo imparato e da quel giorno non ho più dimenticato.

Noi babbi diventiamo babbo così, ogni volta che lasciamo la bicicletta e quella va. O meglio: la vita è proprio quello, saper mollare la bicicletta al momento giusto. E ancora più precisamente: un padre nasce quando ha imparato quell'arte lì. Quella e non altre. L'arte di mollare la bici.
Un padre non nasce nel parto della sua compagna (non io almeno), un padre sarà anche libero e felice e impacciato nel prendere in braccio per la prima volta sua figlia ma non nasce padre con quell'abbraccio. Un padre non avrà monumenti della sua condizione di padre a cui appoggiarsi, non ha necessità, non ha biologie. Ogni singola ecografia, egli è solo uno spettatore.

Il padre nasce nell'attimo esatto, e scusate la quasi citazione degregoriana, in cui la sua mano sparisce: sarà quel contatto perduto nel lasciar andare la bicicletta (possibilmente con sua figlia o figlio sopra, ma anche non necessariamente), quando avrà colto il momento perfetto del distacco.
Oggi che sono passati più di 37 anni da quella primavera. Che quella mano non c'è più davvero. Che quel dolore che mi travolse è stato, ne sono certo, l'ultimo frammento che mi separava da me. Oggi ho capito che, se mai un babbo fosse un brutto anatroccolo, egli non ha alcuna necessità di metamorfosi.
Un cigno? E perché, poi?!

Basta saper mollare la bici.

domenica 12 luglio 2009

Obblighi

Mancano pochi giorni: per martedì 14 luglio è stata indetta una giornata di protesta contro la parte del ddl Alfano che riguarda i blog ed il famigerato "obbligo di rettifica".

In quel giorno i blogger che aderiscono alla protesta lasceranno muti i loro blog: ci sono in rete banner da pubblicare in segno di protesta.

Qui c'è già qualcosa:

giovedì 9 luglio 2009

L'estate del nostro. Contento

Chi non ricorda Jessica Rabbit?: "Io non sono cattiva. E' che mi disegnano così".
Ecco, l'uomo piccolo non è propriamente un tipo tranquillo: spirito libero che mal sopporta le regole ma rispettoso dell'autorità. Un caleidoscopico carattere fatto di grande esuberanza ed estrema timidezza, slanci emotivi di forte generosità e ritrosie assolute.
Casinista e permalosissimo, spregiudicato e pieno di amor proprio.
Un soggetto. Anche a disegnarlo, appunto, non è facile.
Ma se il disegnatore sbaglia il tratto?

Per mesi abbiamo avuto da scuola (materna) una certa immagine: niente di grave o preoccupante, sia chiaro, ma i commenti ci restituivano un uomo piccolo irrequieto, scatenato, irrispettoso, ecc ecc.
Nessun episodio increscioso, per fortuna, ma sempre questa solfa.
E il nostro tornava a casa nervoso, umbratile.
Scontento.

Ora si dà il caso che da un po' di giorni sia cambiato il contesto: materna finita e via ai centri estivi. Qui il clima è totalmente diverso: certo l'ambiente è più giocoso e molto meno scolastico ma nessuno lo dipinge più a tinte fosche, nessuna lamentela, nessun appunto.
Gli educatori qui sono davvero in gamba (li conoscevamo già dallo scorso anno), giovani e molto molto appassionati; magari poco esperti ma attenti e disponibili e ci raccontano di un uomo piccolo certamente vivace ma integrato e capace in gruppo. Insomma un bambino di quasi sei anni.
Risultato?
Il nostro è rifiorito, non è più nervoso, torna a casa non più girato di palle ma contento e felice e allegro e casinista. Vitale, sereno e stanco.
Contento.

Forse il disegnatore precedente sbagliava tratto?
A questo punto facciamo volentieri finta di non saperlo: a settembre si va alle elementari, si cambia regime, inutile recriminare. E si cambia anche disegnatore: chissà che non gli giovino, al nostro, tutte queste novità!
Per ora, estate.
Contenti.

mercoledì 8 luglio 2009

Nel mondo di Harry Potter

"Nel mondo delle favole d'amore perché tutte (parlava al femminile, parlava di donne, ndr) noi abbiamo bisogno di sognare. Nel mondo delle storie leggere, usa-e-getta. Una botta e via".

Per fortuna che nel mondo c'è anche una signora che in vita sua ne ha fatte duemila. Che scrive libri per bambini e ragazzi. Che parla anche ai grandi, sia quando scrive che quando, appunto, parla. E che risponde al nome di Silvana De Mari.
Che è capace di tenere botta venti minuti interi (avete presente quanto sono lunghi, 20 minuti?!), senza perdere un colpo, senza sbagliare una parola. Inchiodandoti alla tua seggiolina di maschio parlandoti della vagina. Sconvolgendoti con l'idea che adesso, proprio ora, in questo preciso momento, una ragazzina da qualche parte nel mondo sta urlando di dolore perché la stanno infibulando.
Io quell'urlo l'ho sentito mentre Silvana parlava.
Come posso vivere tranquillo e incosciente dentro un mondo siffatto?!

Questo episodio è avvenuto settimane fa ma l'ho raccontato solo ora perché avevo bisogno che sedimentasse, che in qualche modo trovasse la sua strada, il suo luogo e le parole per dirlo. Dopo così tanto tempo ce l'ho ancora dentro. Il racconto risuona in me, l'orrore rimbalza tra le mie pareti cerebrali. Una parola che, in se stessa, è un delirio di inciviltà e che suona sinistra anche solo pronunciarla: infibulazione.

Il corpo delle donne, raccontato dalle donne.
Grazie De Mari.
Per la forza.
Per... il ceffone.

martedì 7 luglio 2009

Gli accessori del babbo (1/bis): i cassieri del supermercato

Altro che parità uomo-donna!
Ma quale emancipazione dei babbi?!
L'assioma "pannolini = mamma" è il risultato di un pregiudizio durissimo a morire.
Quando da dietro il carrello stracarico di pacchi sestupli saltavo fuori io, invece di una giovanissima "neomamma. Aiuto!", l'espressione facciale di chi ti accoglieva alla cassa (fosse uomo o donna poco cambiava) era assolutamente inequivocabile: "poveraccio, avrà fatto casino con gli scaffali!".
Se invece l'addetto/a cominciava ad allungare il collo come se stesse cercando qualcosa oltre me, era chiaro sintomo di un retropensiero un po' più articolato: "ma guarda questo rintronato, come ha fatto a non accorgersi di aver scambiato il suo carrello con quello di una mamma?!".
In entrambi i casi, il più schifato compatimento strabordava da quegli sguardi.
In qualche altra, debbo dire rarissima, occasione un commento a mezza bocca si abbatteva su di me come una ghigliottina: "orpo! Ma quanti gemelli hanno!?!? E non c'era traccia della notizia nemmeno su La Nazione!!!".
Il mio sguardo, però, restava superiore, dall'alto della mia sicurezza emancipata, e pagavo.
Senza batter ciglio.
Con carta di credito...

Più che un accessorio vero e proprio, la cassiera del super è in definitiva uno dei gadget, legato specificamente ai pacchi di pannolini, più importanti per il babbo. Farsela amica o che almeno ti sappia riconoscere anche da lontano è essenziale: è lei che, vedendoti entrare alle porte scorrevoli, si sbraccia giuliva e servizievole per segnalarti l'offerta mai-più-senza sui pannolini iniziata da non più di sette minuti.
Peccato che scelga sempre quelli che, anche in offerta, hanno un prezzo che nemmeno il mutuo.
E per di più quelli che non avresti comprato comunque, per boicottaggio verso la multinazionale produttrice poco etica.

Anche in quei casi, anzi a maggior ragione, la cassiera va adeguatamente ringraziata per la segnalazione.
E poi, a mani desolatamente vuote, rassegnatevi a sgattaiolare da un'uscita secondaria.

lunedì 6 luglio 2009

Gli accessori del babbo (1): il pannolino

Beh?! Cosa c'è da ridere?
E invece avete letto proprio bene: "il pannolino".
Perché so di cosa parlo: con la profe, donna di grandi doti analitiche (come ogni vero scienziato) e di temperamento perfezionista (come ogni vera mamma), ai tempi rivaleggiavo in competenze merceologiche.
L'esame delle innumerevoli tipologie (perlopiù prodotte da un paio di fabbriche, alla faccia della concorrenza) presenti sugli scaffali dei super aveva dato un solo vincitore nel famigerato rapporto qualità-prezzo. E non era una marca superstar, tutt'altro.
Quasi fossero una madeleine, per lunghi anni abbiamo comprato sempre gli stessi, scarrellando solo quando c'era qualche offerta sul prezzo di quelli che, identici ai nostri alla prova dell'utilizzo quotidiano, costavano cifre da oreficeria. Ma si sa: anche il culetto vuole la sua parte. O no?!

Ero anche un provetto cambiatore. Avevo la mia tecnica, sempre identica a se stessa, stessi movimenti, stessa sequenza procedurale con velocissima manovra di copertura genitale: contro le pipì improvvise (in effetti ne presi pochissime addosso). Insomma, l'alienazione di Charlie Chaplin in Tempi moderni, in confronto alla mia, era da dilettanti.

Convinto assertore della necessità di applicare ad ogni cambio la crema all'ossido di zinco (ma di quella riparleremo), ero una specie di manipolatore di pannolino usato-salviettina detergente-culetto al lavandino-sapone a ph neutrissimo-asciugatura rapida-spalmatura crema suddetta-inserimento dentro il pannolino-velcratura istantanea definitiva.
La tutina, infine, a guarnizione.
Ero un mago, ero.
Aaahhh...

Ricordo ancora le scorpacciate di pacchi sestupli (scomparivo dietro carrelli morbidissimi), il passaggio di taglia che avveniva con regolarità sorprendente (si potevano contare con esattezza i giorni che mancavano allo step successivo), il prendere la mano nel serrare (si fa per dire, eh!) il velcro evitando la strizzata dello stomaco, il repentino successivo rilascio dei neonati santissimi sfinteri appena finito il cambio e... via!, si ricominciava daccapo.

E per fortuna che la nostra amica new-age non riuscì a convincerci, nei mesi dell'attesa della donna grande, ad usare i ciripà di stoffa lavabili. Perché va bene l'ecologia, va bene aver cambiato centinaia di sordidi pannolini che non si biodegraderanno neanche nel prossimo millennio ma anche lavare il contenitore della sacra cacca, bè quello non so se lo avrei sopportato.

Perché un babbo si vede anche da quello. Da quanto è capace di venir fuori dalla cacca. Ma letteralmente, eh!

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